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Iran Russia Armi

La Russia ha messo le mani su alcune delle armi fornite dagli Stati Uniti e dalla Nato all’esercito ucraino e le ha inviate in Iran, dove Washington teme che Teheran possa provare a decodificarne i sistemi. Nello specifico, il materiale ottenuto dai russi consisterebbe in una parte degli aiuti militari spediti che il blocco occidentale ha mandato sul fronte, e che le forze di Kiev sono state costrette ad abbandonare sul campo di battaglia in seguito a non meglio specificate sconfitte locali.

La notizia è stata diffusa dalla Cnn, che ha citato quattro fonti anonime informate sui fatti. Nel corso dell’ultimo anno, hanno spiegato le stesse fonti, gli Usa, l’Alleanza Atlantica e altri funzionari occidentali hanno assistito a diversi episodi in cui gli uomini di Vladimir Putin sono riusciti a recuperare attrezzature per armi più piccole, a spalla, tra cui sistemi anticarro Javelin e sistemi antiaerei Stinger.

Pare che in molti di questi casi la Russia abbia inviato l’attrezzatura in Iran per smantellare e analizzare ogni singola arma, probabilmente per consentire agli iraniani di creare la propria versione di quelle armi. Mosca riterrebbe inoltre che continuare a fornire armi occidentali catturate all’Iran sarebbe un valido incentivo per convincere Teheran a mantenere alto il suo sostegno alle operazioni militari della Russia in Ucraina.

TEHRAN, IRAN – NOVEMBER 23: Russian President Vladimir Putin (L) talks to Iran President Hassan Rouhani (R) during their talks after the end of the third Gas Exporting Countries Forum gas summit November 23, 2015 in Tehran, Iran. The summit is devoted to the assessment of the current situation on the world gas market as well as to the development prospects of the field. (Photo by Sasha Mordovets/Getty Images)

Un rischio da evitare

Che cosa potrebbe succedere nel caso in cui armi occidentali impiegate dall’esercito ucraino dovessero essere decodificate dall’Iran? Basta ascoltare Jonathan Lord, senior fellow e director del Middle East security program presso il Center for a New American Security.

“(Gli iraniani ndr) hanno decodificato il missile guidato anticarro TOW, creando una replica quasi perfetta che hanno chiamato Toophan, e da allora l’hanno diffuso tra gli Houthi e gli Hezbollah. L’Iran potrebbe fare lo stesso con uno Stinger, che potrebbe minacciare l’aviazione civile e militare in tutta la regione. Un Javelin retroingegnerizzato potrebbe essere usato da Hamas o Hezbollah per minacciare un carro armato israeliano Merkava. Nelle mani dei delegati dell’Iran, queste armi rappresentano una vera minaccia per le forze militari convenzionali di Israele”, ha spiegato Lord.

Ricordiamo che nell’ultimo anno la cooperazione militare della Russia con l’Iran si è approfondita. La Casa Bianca ritiene che il Cremlino abbia chiesto e ricevuto centinaia di droni dall’Iran, oltre a proiettili di artiglieria e carri armati; in cambio, Teheran avrebbe chiesto a Mosca attrezzature militari per un valore di miliardi di dollari, tra cui aerei da combattimento, sistemi radar ed elicotteri. Il nuovo filone delle armi occidentali inviate dai russi in Iran apre un nuovo, preoccupante, filone.

GUERRE DIMENTICATE

Siria, Congo, Yemen e Corno d’Africa. Sono tanti i conflitti dimenticati offuscati dalla guerra in Ucraina. Eppure nel mondo si continua a combattere. Oggi si contano oltre 20 conflitti attivi, buchi neri che generano instabilità e che possono ingrandirsi con conseguenze devastanti

Conflitti ad alta o bassa intensità, lotte al terrorismo, colpi di stato e guerre civili. I riflettori sono puntanti sulla guerra che si combatte in Ucraina, distratti, per appena qualche settimana, dall’annosa questione di Taiwan: dove caccia e navi da battaglia continuano ad essere mobilitati in attesa di una grande invasione cinese che forse non avverrà mai. Eppure in Etiopia, Yemen, Sahel, Nigeria, Afghanistan, Libano, Sudan, Haiti, Colombia e Myanmar si combatte. Tutti i giorni.

Sono le guerre dimenticate. Quelle che da Noi non fanno o non fanno più notizia ma sono egualmente importanti da ricordare nella visione d’insieme di uno scacchiere geopolitico sempre più intricato e complesso. Perché ovunque si combatta un guerra, si trovano interessi e sfere d’influenza, obiettivi strategici e finanziatori occulti, vendite o traffici di armi e materie prime o terre rare da privare o nazionalizzare; e in fine future black operation e future missioni di peacekeeping dove contingenti internazionali rischiano di rimanere “impantanati” fino al punto di trascinare un intero Paese, o peggio un’intera alleanza, in una guerra che nessuno potrebbe più dimenticare.

Secondo i dati più aggiornati, attualmente sono 23 i conflitti ad alta intensità “attivi” nel mondo. A questi vanno sommate centinaia di tensioni che posso esplodere in una guerra civile o insurrezione da un momento all’altro. Armed Conflict Location & Event Data Project, organizzazione no-profit americana che vanta tra i suoi sostenitori il dipartimento di Stato degli Stati Uniti e diversi governi europei, le principali “dispute” territoriali che sono sfociate o rischiano di sfociare in conflitti convenzionali ad alta intensità riguardano: l’Ucraina e le repubbliche auto-proclamate di Donbass e Lugansk dopo l’invasione voluta da Mosca; il Nagorno Karabakh dove Armenia e Azerbaijan stanno raggiungendo una pericolosa escalation; la Turchia nella “fascia cuscinetto” dove è presente l’etnia Curda e l’infinito scontro tra israeliani e palestinesi lungo la Striscia di Gaza e nei territori contesi della Cisgiordania (anche noti come West-bank,ndr). Lo scontro che si sta consumando in Etiopia tra il governo etiope e i combattenti affiliati al Fronte popolare di liberazione del Tigray per ottenere il controllo dell’omonima regione.

Il colpo di coda dei talebani in Afghanistan, la prosecuzione della guerra civile in Siria per sovvertire il governo presieduto a Assad figlio, l’interminabile conflitto libico tra i governi posti di Tobruk e Tripoli sono considerate guerre civili ancora attive. Anch’essi passate in secondo o terzo piano nonostante il delicato scenario che ha visto coinvolte spedizioni militari statunitensi, britanniche, francesi, e russe. Senza contare l’impiego di contractors, consulenti militari di vario genere e semplici addestratori (anche se apparteniti alle forze speciali, ndr). Ma come dimenticare la guerra civile in Yemen? Scoppiata all’inizio nel 2015 tra la coalizione governativa appoggiata dall’Arabia Saudita e i ribelli Houthi, filo-iraniani.

Se in Iraq, dopo due guerre del Golfo e un’occupazione militare più che duratura, si registra ancora un’instabilità politica animata da sporadici attentati mossi dagli estremisti islamici, è nella fascia del Sahel che una guerra dimenticata con la costellazione di movimenti paramilitari fondamentalisti rischia di gonfiarsi fino a trascinare interi eserciti occidentali in una guerra che ricorderebbe il dramma dell’Afghanistan. Particolarmente critico il teatro del Mali, ex-colonia francese.

Preoccupanti e abbandonate al tetro dimenticatoi, sono gli scontri etnici che si consumano in Burkina Faso e nella Repubblica Democratica del Congo; le guerre o guerriglia condotte contri i militanti islamici di al-Shabaab in Somalia e Kenya; la guerriglia condotta contro Boko Haram in Nigeria; la guerra civile nel Sudan e nel Sud del Sud, dove i gruppi ribelli sono particolarmente attivi nel Darfur. E poi ancora scrontri in Angola, Mozambico, Congo. Sopressioni dei movimenti ribelli e militanti islamisti ancora in Egitto, nel Myanmar, in Daghestan e Cecenia come nelle Filippine. La guerra tra bande armate ad Haiti e quelle mosse ai cartelli della droga in Sud America. Guerre veramente dimenticate. Dove vecchie potenze e nuovi fermenti si incrociano nella salvaguardia di nuove e vecchie sfere d’influenza, religioni arcaiche e riti tribali, giacimenti di diamanti e terre rare che troveranno nuove rotte commerciali. E ancora territori da contendersi, dove la guerra non può neanche essere immaginata considerato il calibro dei belligeranti che vi prederebbero parte: Alaska o Mar Cinese Meridionale. Altri teatri che per guardare all’Ucraina, abbiamo momentaneamente accantonato.

Sono forse quelli i punti caldi più pericolosi e temibili di tutti. Punti geografici e remoti come la regione del Kashmir. Che vede contrapposte a causa delle delle tensioni mai sopite India e Pakistan. Entrambe potenze nucleari pronte e premere il dito sul bottone. È eccessivamente caustica eppure adeguata infatti, la conclusione potremmo rivolgere a coloro che fin troppo spesso, nel considerare esclusivamente minacce vicine e sulla bocca di tutti come ad esempio il climate-change, ribadendo come ogni decisione debba considerare “l’intero insieme delle cose” e non meno i conflitti in corso nel nostro martoriato pianeta. Poiché il cambiamento di delicati equilibri nella ricerca di prolungare la vita sul nostro bel pianeta, potrebbe al contrario costringere alla morte violenta migliaia di persone. O addirittura accorciarla drasticamente – se non si tiene conto degli interessi specifici di super potenze che con un first e second strike nucleare potrebbe riportarci alla preistoria in una manciata di ore.

INCUBO SIRIA

Cosa resta dell’inferno siriano

Spenti i riflettori sulla Siria, alle spalle delle telecamere andate via c’è un Paese condannato ancora a subire il suo inferno

Per diversi anni il mondo ha visto quasi in diretta in che modo la Siria si è progressivamente trasformata in un autentico inferno. Le prime immagini delle città distrutte nel 2012, la crisi dei profughi del 2015, l’avvento dell’Isis e del califfato hanno fatto percepire la distruzione di un intero Paese, considerato stabile fino al 2010, causata dalla guerra. Oggi di Siria si parla molto poco. L’inferno però è rimasto. In primis perché la guerra non è finita. E poi perché lì dove non si spara più e lì dove terroristi e islamisti sono stati allontanati, è ancora impossibile ricostruire. Ci sono infatti altre bombe, di natura politica, che rendono la Siria un Paese infernale. Dalle sanzioni fino alla “partita a scacchi” ancora in corso tra le grandi potenze straniere impegnate sul campo. Tutti elementi che, a distanza di 11 anni dall’inizio del conflitto, contribuiscono giorno per giorno ad allontanare la normalità da Damasco, Aleppo, Homs e da tutte le altre città siriane.

Quelle “sanzioni dimenticate” che uccidono più delle bombe

C’è stato un tempo in cui in Europa, oltre a parlare delle operazioni militari, si potevano leggere articoli sugli effetti deleteri delle sanzioni. Misure imposte subito dopo l’inizio delle ostilità in particolar modo dagli Stati Uniti dall’Unione Europea e rinnovate, con cadenza annuale, dal 2013 in poi. L’intento ufficiale è sempre stato quello di procurare danni al governo siriano e a quell’apparato di potere guidato dal presidente Bashar Al Assad accusato, a torto o a ragione, di reprimere il suo stesso popolo. A prescindere da ogni valutazione relativa al capo dello Stato siriano, la cui permanenza è comunque stata legittimata dalle avanzate dell’esercito di Damasco coadiuvato dalla Russia a partire dal 2015, le sanzioni stanno danneggiando unicamente la popolazione.

In piena pandemia nel 2020 alcune associazioni umanitarie hanno lanciato petizioni per la rimozione delle misure contro Damasco. Tra queste anche il gruppo cattolico New Humanity, la cui istanza ha destato clamore anche per la firma, tra gli altri, dell’ex presidente della commissione Ue Romano Prodi. Le sanzioni però anche quell’anno sono state rinnovate, così come anche nel 2021 e nel 2022. Il tutto nel silenzio acuito dall’impopolarità del conflitto, spinto dalla guerra in Ucraina nelle pagine di rincalzo di giornali e telegiornali. Forse in pochi oggi ricordano che le sanzioni stanno continuando a colpire in modo pesante il popolo siriano.

Spenti i riflettori, rimangono milioni di poveri bisognosi di cure sempre meno possibili e di generi di prima necessità sempre più carenti. A mancare è anche la possibilità di investimenti, da queste parti più che mai importanti per avviare la ricostruzione. A Damasco, così come in tutti i capoluoghi di provincia siriani, eccezion fatta per Idlib, la guerra non c’è più. Ma la gente continua a scappare perché impossibilitata a ricostruire casa, ad avere lavoro e reddito per tornare a una vita serena.

Una normalità lontana da raggiungere

C’è stato un momento in cui passeggiare per Aleppo era impossibile. La città dal 2012 fino al dicembre 2016 è stata divisa in due: una parte controllata dal governo, l’altra in mano a gruppi di opposizione legati soprattutto all’ex fronte al Nusra e a movimenti jihadisti. Uscire di casa nelle zone governative voleva significare rischiare di beccarsi missili artigianali, ordigni di ogni tipo, a volte fabbricati anche con l’uso di bombole a gas, sparati dall’altra parte del fronte. Al tempo stesso, provare anche solo ad andare a fare la spesa nei quartieri controllati dagli islamisti esponeva le persone ai bombardamenti dell’aviazione russa e siriana. Oggi tutto questo non c’è più. La battaglia di Aleppo si è conclusa nel dicembre del 2016 con la riconquista da parte dell’esercito di Damasco dell’intero territorio. Adesso è possibile passeggiare e girare per strada senza lo spettro di un ordigno che piova alla gente sulla testa. Ma non si può parlare di normalità.

Aleppo è solo un esempio. Analogo discorso è possibile farlo per Damasco, dove anche l’Isis a un certo punto ha fatto la sua comparsa, per Homs, per Deir Ezzor, per Raqqa, per Dara’a e tutte le principali località del Paese. Le varie avanzate governative hanno confinato gli scontri in poche enclavi del territorio siriano, ma questo non ha coinciso con il ritorno alla normalità. “Sì, si costruisce, qui ad Aleppo ci sono isolati dove l’aspetto cambia giorno dopo giorno – commenta al telefono Fadi, un ragazzo aleppino per lungo tempo in Italia – ma ad esempio lì dove la mia famiglia aveva il suo negozio di saponi e dove sono cresciuto è un cumulo di macerie. Ci passo ogni giorno e dico a me stesso che forse è questa la nuova normalità della Siria”. Parole e toni che sanno quasi di rassegnazione oppure di abitudine a una guerra che non è più “emergenza”, andando avanti da 11 anni.

Da Homs arrivano i racconti di un macabro mercato della prostituzione minorile indotto da una povertà dilagante in grado di inghiottire nell’imbuto della storia decine di ragazze. Guerra dimenticata vuol dire anche questo: spegnere i riflettori da un territorio impossibilitato a ripartire e condannarlo a un silenzio che infligge alla società più danni delle granate.

Una partita a scacchi lontana dai riflettori

La Siria vive un paradosso destinato forse a bloccarla per molto tempo ancora. Da un lato c’è un vincitore, ossia l’esercito regolare aiutato dai russi e dagli iraniani, dall’altro però c’è un conflitto non ancora chiuso del tutto e che viene alimentato dalla sfida tra le potenze internazionali impegnate nel Paese. Il territorio siriano è diviso in almeno tre sfere di influenza. C’è quella russa per l’appunto, estesa nella parte occidentale lì dove le truppe di Damasco aiutate da Mosca hanno ripreso il controllo delle principali città. C’è poi quella Usa, con le forze di Washington presenti ancora nell’area delle riserve di petrolio a est dell’Eufrate, lì dove sono arrivate durante gli anni della guerra all’Isis e del sostegno all’Sdf, ossia la milizia filocurda che controlla buona parte della Siria orientale. C’è infine l’influenza turca a nord, nelle zone dove Ankara ha piazzato, in ottica anticurda, le proprie milizie e dove c’è ancora la presenza, specialmente nella provincia di Idlib, dei gruppi legati all’ex Fronte Al Nusra.

La Siria tornerà come un tempo?

Difficile oggi dire se e quando la Siria si lascerà alle spalle il suo inferno dimenticato. Non ci sono solo città distrutte ed economie ferme a causa delle sanzioni. Così come non ci sono soltanto giochi tra potenze a pesare sul futuro dei siriani. Il problema è anche di natura sociale. Nelle città ancora ridotte in macerie dovranno convincere vincitori e vinti della guerra, perseguitati e perseguitanti, genitori che hanno perso i figli nelle battaglie e sostenitori di chi, negli anni più bui, sgozzava le teste ai soldati. Ricomporre il puzzle siriano richiederà lavoro e tempo. Ma soprattutto richiederà l’effettiva fine della guerra. Un conflitto dimenticato il cui lascito potrebbe essere tra i più pesanti di sempre.