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Bad&Shit

TUTTO QUELLO CHE NON DOVETE SAPERE

SOUND OF FREEDOM

⚠️2 MILIONI DI BAMBINI ALL’ANNO VENGONO RAPITI E POSTI IN SCHIAVITÙ SESSUALE, ECCO IL FILM “SOUND OF FREEDOM”

TUTTO QUELLO CHE NON DOVETE VEDERE

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I bambini PALESTINESI MArtiri degli Ebrei in Palestina, Bambini Massacri in PAlestina il 28 GIUGNO

MASSACRI QUOTIDIANI

Le forze di occupazione israeliane arrestano tre bambini a Nablus. https://palestinahoy.com/israeli-occupation-forces-arrest-three-children-in-nablus/

DEPORTATI DAGLI EBREI… PULIZIA ETNICA: Israele costringe ora migliaia di palestinesi a lasciare le loro case nel campo profughi di Jenin.

GLI EBREI NON HANNO PIETA NEMMENO PER I BIMBI, IN PALESTINA

Una bambina palestinese piange dopo i bombardamenti israeliani nel campo profughi di Jenin. Migliaia di palestinesi sono stati costretti a lasciare le loro case sotto la minaccia di attacchi da parte delle forze di occupazione israeliane.

Questa mattina i bulldozer dell’occupazione israeliana hanno distrutto intenzionalmente le infrastrutture stradali e dell’oleodotto nel campo profughi di Jenin.

le forze di occupazione israeliane espellono ora più di 300 famiglie palestinesi dal campo profughi di Jeni

L’operazione di sparo e speronamento di oggi a Tel Aviv ha causato numerose vittime tra i coloni



LE PROSSIME FOTO SONO MOLTO MOLTO PESANTI

GUANTANÁMO Guantanamo Torture

A proposito di Guantànamo, c’è una testimonianza sconcertante sul sito dell’organizzazione umanitaria Reprieve, organismo formato da avvocati, difensori dei diritti umani, fondato nel 1999 da un giurista britannico, Clive Stafford Smith, che fornisce supporto legale e investigativo gratuito ad alcune delle persone più vulnerabili del mondo: quelle che si trovano ad affrontare una detenzione da 18 anni, senza essere mai stati accusati di nulla, vittime delle politiche abusive contro il terrorismo degli Stati Uniti. L’azione di questi avvocati avvocati e investigatori sono supportati da una comunità di persone di tutto il mondo.

Il campo di prigionia statunitense di Guantánamo Bay è stato aperto vent’anni fa, l’11 gennaio 2002. Il governo degli Stati Uniti vi ha ingiustamente e illegalmente detenuto oltre 800 uomini musulmani.

I clienti di tregua sono stati rinchiusi a Guantanamo Bay senza accusa né processo per due decenni. Sono “prigionieri per sempre”, sottoposti a tempo indeterminato a torture, abusi e detenzione.

Anche i detenuti ‘autorizzati al rilascio’ come i nostri clienti Saifullah, Ahmed e Asadullah stanno aspettando al buio, senza alcuna informazione su quando torneranno a casa. 

Ecco perché dobbiamo parlare: Guantánamo deve essere chiuso.


MOLTE FOTO SONO DI WASHINGTON TIMES

TUTTE LE TORURE DELLA CIA CON I MEDICI COMPLICI




NESSUNO DEI TORTURATORI MASCHI E FMMINE E? STATO CONDANNATO







LE DONNE TORTURANO PIU DEGLI UOMINI







https://salvatorebulgarella.com/2023/06/28/obama-family/

America LOBBY

I PADRONI DELLA POLITICA USA, la Republica degli OLIGARCHI

Il sistema politico americano è gestito da una ristrettissima élite fondata sulla ricchezza e radicata nelle grandi famiglie. Il Congresso è centrale, le lobby pure, la Casa Bianca molto meno. È ora di riformare l’assetto ideato dai padri fondatori.

1. Nell’estate del 1787 la segretezza che circondava i lavori della convenzione di Philadelphia era divenuta insostenibile anche per gli abitanti del Nuovo Mondo, che pure non erano usi ricevere spiegazioni dai loro governanti.


Al termine dell’assemblea la signora Powel, che fuori dal cancello della Independence Hall attendeva notizie, si rivolse a Benjamin Franklin per sapere quale forma costituzionale avrebbero assunto gli Stati Uniti d’America. «Dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?», chiese con trepidazione. Voltatosi di scatto, Franklin la fulminò con una risposta smaccatamente paternalistica: «Avremo una repubblica, signora, se sarete in grado di mantenerla»

La dichiarazione tradiva l’approccio dei padri fondatori (framers). Nelle intenzioni originarie, l’America non doveva essere una democrazia – la parola non appare mai negli articoli della costituzione – ma una repubblica. Non solo per il fascino irresistibile dell’Antica Roma. Il termine greco demokratía richiamava «la diretta e pericolosa» incarnazione del governo da parte del popolo. Gli Stati Uniti invece sarebbero stati guidati da un gruppo di elitisti illuminati che, prestati solo temporaneamente alla politica, avrebbero amministrato la cosa pubblica senza lasciarsi traviare dalle passioni. E avrebbero perduto la libertà solo se la popolazione avesse imposto la propria volontà alla classe dirigente, alterando l’architettura istituzionale.


La politica doveva essere appannaggio di pochissimi letterati, selezionati per censo quale elettorato attivo e passivo. Il feticcio della rappresentatività era il diaframma da inserire tra il lucido perseguimento dell’interesse pubblico e la cieca umoralità delle masse. Il presidente sarebbe stato scelto indirettamente, da un collegio elettorale che si riuniva in semiclandestinità. La stessa idea di indire elezioni esclusivamente di martedì, il giorno che precedeva il mercato, doveva scoraggiare la cittadinanza dall’interessarsi alle questioni pubbliche. Un distacco che avrebbe reso immune la nazione dalla violenza che sconvolgeva l’Europa. I propositi erano talmente palesi che, inviato nel Nuovo Mondo per studiare il sistema penale, quarant’anni dopo l’aristocratico francese Charles-Alexis-Henri Clérel de Tocqueville sposò senza esitazione il sentire dei framers, indicando «nella dittatura della maggioranza»la principale minaccia al modello a stelle e strisce.

Oltre duecento anni più tardi, la repubblica appare tanto in linea con il disegno dei padri fondatori quanto lontana dal progetto iniziale.

Lo strapotere dei grandi finanziatori sta inevitabilmente rivoluzionando la competizione elettorale. Gli effetti del fenomeno sono parsi evidenti già durante le presidenziali del 2012. Per la prima volta i super-ricchi spesero più dei partiti e lo scontro tra magnati provocò lo sconvolgimento delle consultazioni repubblicane, con conseguente indebolimento di Mitt Romney. Le primarie sono governate da dinamiche predefinite e di norma solo pochi candidati le affrontano con il reale obiettivo di vincere.

A differenza di quanto avviene in Europa, negli Stati Uniti la campagna elettorale si svolge preminentemente dal basso verso l’alto e la costruzione sul territorio nazionale di una capillare rete di comitati organizzativi richiede notevoli mezzi finanziari. Così i politici che non hanno a disposizione tali risorse scendono in campo per ragioni accessorie: acquisire un profilo nazionale, pubblicizzare iniziative extraelettorali, oppure per offrirsi al futuro vincitore come potenziali vicepresidenti. Nel 2012 pressoché ogni sfidante di Romney era in corsa esclusivamente per ottenere notorietà. L’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, da anni lontano dalla scene, puntava a incrementare le vendite dei suoi libri; l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, intendeva invertire la parabola discendente della sua carriera; l’imprenditore Herman Cain semplicemente sperava di accedere alla ribalta nazionale.

A dimostrazione del tenore assai poco bellicoso della contesa, all’inizio della campagna elettorale Gingrich abbandonò comizi e fundraising per concedersi una crociera nel Mare Egeo con sua moglie Calista. Mentre Herman Cain, in barba alle più elementari regole dello scontro elettorale, non si premurò neanche di comprare il silenzio di una sua storica amante che, come facilmente prevedibile, alcuni mesi dopo riemerse dall’oblio. Nessuno immaginava, tantomeno i diretti interessati, che i miliardari della destra avrebbero adottato candidati tanto improbabili, inondandoli di denaro. In particolare Adelson versò 21 milioni di dollari a un super pac vicino a Gingrich che improvvisamente iniziò a negare l’esistenza della Palestina e che, grazie agli inaspettati fondi, si aggiudicò il cruciale Stato della Carolina del Sud. Solo dopo essersi recato personalmente a Las Vegas, Romney riuscì a convincere Adelson ad abbandonare Gingrich, promettendo al magnate di convertirsi nel più ostinato difensore d’Israele. Tuttavia il finanziere del Wyoming Foster Friess, con alcuni milioni di investimento, consentì all’italo-americano Santorum di aggiudicarsi ben undici Stati (tra questi i rilevanti Iowa e Colorado) e di prolungare le primarie fino a metà aprile.

Anatema per qualsiasi aspirante alla Casa Bianca, che in condizioni normali punta a chiudere la contesa per le idi di marzo, così da smettere i panni del leader radicale e guadagnare il centro per affrontare il rivale dell’altro partito. Costretto a devolvere tempo e risorse in una gara ritenuta vinta in partenza, nei mesi successivi Romney non riuscì a reinventarsi. Anche perché intanto la macchina elettorale di Obama aveva raccolto oltre un miliardo di dollari, grazie ai finanziamenti di molti oligarchi vicini alla sinistra. Tra gli altri: Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Fred Eychaner, grande editore televisivo di Chicago; Irwin Jacobs, fondatore di Qualcomm, la multinazionale specializzata nella produzione di semiconduttori.

I SUPER OLIGARCHI DEL MONDO

La società di ricerca Wealth-X definisce gli individui con un patrimonio netto ultra elevato (UHNW) come coloro che possiedono un patrimonio pari o superiore a 30 milioni di dollari. E secondo il suo ultimo rapporto , più di questi super ricchi vivono negli Stati Uniti che in qualsiasi altra parte del mondo.


«I super-ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro»12, ha sentenziato l’autorevole editorialista del Washington Post Dana Milbank. La svolta appare inarrestabile. In vista del 2016 i concorrenti in corsa per la presidenza sono impegnati in questi mesi ad assicurarsi i finanziatori più munifici. I giochi non sono ancora decisi, ma alcuni accoppiamenti sono già ufficiali. George Soros, che nel 2014 è stato nominato tra i manager del super pac Ready for Hillary, e tutti i principali finanziatori di Obama si sono schierati al fianco della Clinton. Tra questi proprio Katzenberg, Eychaner e Jacobs; il produttore televisivo e in passato proprietario di Abc Family Haim Saban; il manager di hedge funds James Simons; il costruttore Eli Broad; l’ex partner di Goldman Sachs, Daniel Neidich; la produttrice della serie televisiva Homeland, Marcy Carsey. Hanno invece abbracciato la candidatura di Jeb Bush: l’albergatore Gordon Sondland; il patron dei New Jersey Jets, Woody Johnson; l’ex padrone dei Seattle Mariners, George Argyros.

Al contrario, Wall Street si divide equamente tra Jeb e Hillary. I fratelli Koch, almeno inizialmente, finanzieranno Bush junior, Scott Walker e Marco Rubio, che ha dalla sua anche Norman Braman, proprietario di un’immensa catena di concessionarie d’auto. Mentre Robert Mercer, un manager di hedge funds del New Jersey, ha scelto il senatore del Texas Ted Cruz. Infine Adelson e Steyer si riservano il diritto di schierarsi in una fase successiva della competizione.

Se la politica è retta dalle grandi dinastie, da decenni la sfera amministrativa è appannaggio dei lobbisti. Contrariamente a quanto accade in Italia, dove il potere burocratico è gestito dai dipendenti statali, negli Stati Uniti gli unici che tecnicamente conoscono le questioni parlamentari e la macchina governativa sono gli agenti di pressione che svolgono le loro funzioni nell’interesse dei clienti. Di frequente senza neanche esplicitare il mestiere e muovendosi dietro le quinte. Con evidente annullamento della responsabilità personale e politica.

Primarie USA, cosa sono i Pac, Gli Aipac ed i Super Pac

Il loro nome è Super Pac (Super political action committees) e stanno creando non pochi imbarazzi alle campagne elettorali dei candidati democratici e repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti.

SUPER PAC

Si tratta di organizzazioni di raccolta fondi che appoggiano un politico o un partito in maniera privata e indipendente e hanno la capacità di influenzare l’opinione pubblica con spot elettorali e una serie di azioni a sostegno del candidato senza dover rispettare vincoli e divieti applicati alle donazioni dirette.

Nel gennaio del 2010 la Corte Suprema ha infatti stabilito che lo Stato Americano non ha il diritto di vietare alle lobby e alle grandi corporations di contribuire in maniera massiccia alle campagne elettorali americane.
Tuttavia, se in base al principio del “free speech”, la possibilità di finanziare illimitatamente le campagne è alla base della rappresentanza degli interessi a stelle e strisce, le regole a cui sottostanno questi Super Pac sono molto meno severe dei precedenti Pac e molto meno trasparenti. A differenza delle donazioni dirette, per esempio, le organizzazioni hanno la possibilità di mantenere segreto il nome dei finanziatori fino a elezioni concluse e, non essendo direttamente collegate alle campagne dei candidati, questi ultimi non possono essere ritenuti responsabili delle azioni di queste organizzazioni.

Fondi usati per spot contro gli avversari. I fondi di questi gruppi indipendenti però non possono essere utilizzati per sostenere direttamente la campagna, ma spesso (come è avvenuto per la scorsa tornata elettorale), per denigrare gli avversari con spot e campagne di disinformazione.
Inoltre, da quest’anno, le organizzazioni indipendenti hanno deciso di forzare la mano e aggirare ancora di più il regolamento, utilizzando le proprie risorse per pagare i viaggi dei candidati, realizzare ricerche di mercato a tappeto e analizzare il sentiment dell’elettorato a Usa.

Le donazioni dal basso? A confronto raccolgono briciole

La forza di questi Super Pac sta minando alle basi il mito delle campagne americane, fatte di donazioni dal basso e di raccolta di piccole somme da parte della base dell’elettorato.

Le campagne di grassroots e advocacy rimangono centrali, ma uno spettro aleggia sulla maggior parte dei candidati americani.

Per Jeb Bush già 108 milioni. Se infatti da una parte abbiamo le donazioni con un tetto di 2.700 dollari a supporter, dall’altra i miliardari di mezza America hanno dato il loro appoggio più o meno esplicito ai candidati e le cifre raggiunte sono da capogiro (già quasi 300 milioni di dollari) considerato che non siamo ancora entrati nel vivo della campagna elettorale.
Il paperon dei paperoni dei Super Pac è Jeb Bush con 108,5 milioni raccolti dal Pac a suo favore, contro gli appena 11,4 milioni raccolti dalla campagna. Lo seguono a ruota altri due repubblicani come Ted Cruz (37,8 milioni dai gruppi indipendenti contro i 14,3 dalla campagna) e Marco Rubio, che con 33,1 milioni ha un rapporto di 3 a 1 rispetto ai fondi diretti.

Trump, il magnate si fa largo tra i competitor di Hillary

Un candidato che invece di finanziamenti ne ha avuti davvero pochi, perché in sostanza non ne ha bisogno, è Donald Trump. Le donazioni a suo favore ammontano a soli 1,9 milioni di dollari e appartengono tutte alla schiera delle donazioni dirette.

Partito come outsider per la corsa alla presidenza, considerato quasi un fenomeno da baraccone dagli altri candidati, si sta facendo largo tra le file del suo partito e c’è chi dice che potrebbe essere proprio lui a sfidare Hillary Clinton nel 2016.

I paragoni con Silvio Berlusconi. Molti lo hanno paragonato a Silvio Berlusconi e alla discesa in campo del 1994, per la sua grande fortuna imprenditoriale, la capacità di dominare i palinsesti televisivi e la sfacciataggine che piace molto alla gente comune.
Una cosa è certa, il magnate americano sta molto simpatico al cittadino medio, ha condotto programmi di successo come The Apprentice si è classificato come celebrità n° 17 nella lista di Forbes 100 del 2011, e ha portato avanti una serie di campagne online molto avvincenti, come l’appuntamento settimanale #Askthedonald, dove risponde a commenti e domande postate sui social media dai suoi fan, estimatori o avversari.

L’AIPAC e l’influenza della potente lobby Israeliana
E a proposito di lobby straniere, menzione fondamentale dev’essere fatta a quella Israeliana, la cui capacità di condizionamento della politica americana è leggendaria e, per molti, inquietante, tanto che nel gennaio dell’89 alcuni ex esponenti governativi, fra cui l’ex sottosegretario di Stato George Ball, si risolsero all’insolito passo di presentare un esposto alla Federal Election Commission contro un organismo che secondo Ball “aveva fatto un enorme lavoro di corruzione del processo politico democratico”. L’organizzazione in questione si chiama American Israel Public Affairs Committee

L’AIPAC, American Israel Public Affairs Committee, è un gruppo di pressione (lobby) americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele. È considerato il più potente e influente gruppo d’interesse a Washington.

REGAN SALVA LE BANCHE

E’ in queto momento che L’amministrazione Reagan, infatti, decise di salvare le banche aiutandole a scoprire miliardi di dollari di attività di cui sino ad allora non si era sospettata l’esistenza: la “magia”, così, si realizzò, permettendo alle banche di attribuire nel bilancio in corso un valore molto elevato all’avviamento, ovvero i profitti futuri previsti. Ma chiaramente, le correzioni sulla carta non potevano modificare la realtà: esse, infatti, dovevano ancora pagare sui depositi interessi più elevati di quelli che percepivano sui mutui, cosicchè ci voleva ancora un altro “ingrediente”, un ingrediente che comportava anche degli Ibidem.

I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia,

Reagan, infatti, aveva premuto parecchio sul pedale della deregulation, consentendo così alle banche di investire in nuovi settori a rischio, comprando persino i cosiddetti “titoli spazzatura”: c’era infatti la speranza che i profitti elevati che ne potevano derivare consentissero loro di risalire la china in cui le aveva spinte la Fed, salvandole dal baratro dell’insolvenza, il tutto a costo zero. Ma l’obiettivo non era fare della buona economia o della buona contabilità, né seguire prassi bancarie corrette, bensì soltanto rimandare la resa dei conti a un giorno in cui se ne sarebbe occupato qualcun altro. Così, i ripari fiscali in campo immobiliare si moltiplicarono a dismisura e le città si riempirono di inutili grattacieli pieni di uffici.

Ci erano voluti quasi dieci anni prima che gli errori dell’inizio del decennio-tassi d’interesse esorbitanti, deregolamentazione sconsiderata e trucchi contabili-risultassero evidenti e imponessero di trovare una soluzione. Nel frattempo, poi, in tutto questo marasma, il Congresso, attorno a cui cominciava da tempo ad aleggiare un clima di sfiducia e sospetto, come luogo simbolo della corruzione della politica nazionale e della malattia dell’intero sistema, fu nuovamente colpito al cuore da un enorme scandalo, immediatamente collegato proprio al crack delle Casse di Risparmio, da cui balzò in primo piano il nome di un finanziere e speculatore, Charles Keating, il quale avrebbe a sua volta messo nei guai cinque senatori.

Cosicchè, quando un numero elevatissimo di Istituti dichiarò fallimento o fu indotto a dichiararlo dagli organi di vigilanza, il costo dei rimborsi a carico dell’Erario si rivelò enorme (oltre 140 miliardi di dollari). In ogni modo, poiché dall’andazzo che aveva portato a questa voragine avevano beneficiato entrambi i partiti, e ambedue portavano la loro parte di responsabilità, avendo i parlamentari preposti alla sorveglianza scelto di ignorare i segnali di allarme, la classe politica aveva chiaramente fatto quadrato e il crack in sé non divenne subito scandalo politico.

Eppure, a riprova, ancora una volta, degli intrecci tra politica e denaro “interessato”, i supervisori distratti, cioè i membri delle commissioni competenti, avevano incassato dalle lobby delle Casse 4.5 milioni di dollari di contributi per le rispettive campagne elettorali.

A fronte della successiva inchiesta aperta dagli organi federali proprio in seguito allo scandalo Keating, sarebbe emersa ancora una volta la responsabilità trasversale di una larga parte del mondo politico di Washington, aumentando così ulteriormente la già diffusa sfiducia dei cittadini verso le istituzioni

Gli anni Novanta: tra tentativi di riforma e resistenze del “sistema” . La crescente consapevolezza della corruzione di Washington e lo scandalo delle Casse di Risparmio Il decennio dei Novanta, dunque, si apriva con il Campidoglio messo globalmente sotto accusa dai media e dalla stampa nazionali, nonché circondato dalla più grande disistima pubblica: secondo un sondaggio condotto nel 1990 per la rete CBS e il New York Times, infatti, il 18% degli americani si diceva convinto che la grande maggioranza dei parlamentari fosse corrotta sul piano finanziario, il 22% che lo fosse solo la metà, il 40 % che lo fosse almeno una parte1 .

E in effetti anche i politici discutevano ormai apertamente di una crisi etica, di una “questione morale”, in quanto singoli casi di corruzione aperta, come quello Keating cui già si è fatto riferimento, mascheravano una tendenza a comportamenti generali che investivano il sistema stesso in un giro di denaro “interessato” che aveva per destinatario il parlamentare in forme perfettamente legali. La vera corruzione, si diceva, era la dipendenza quotidiana del 1 Rodolfo Brancoli, In nome della lobby, Garzanti, 1990 parlamentare dal lobbyista e dal PAC, che legalmente ne finanziavano la campagna garantendogli il futuro, e ne integravano attraverso la pratica degli honoraria persino lo stipendio2 .

Come detto, il crack delle Casse di Risparmio e il caso Keating accesero finalmente la “miccia” di questa enorme “bomba”. Peraltro, come Brancoli ancora una volta evidenzia,

Con questo sistema veniva meno anche qualsiasi distinzione di parte, che era o sarebbe dovuta essere basata sulla differenza di principi, proprio perché il finanziamento si rivolgeva ai destinatari di tutti i partiti indistintamente, sulla base del puro interesse di chi dava e del potere di chi riceveva, con quest’ultimo che era poi inesorabilmente vincolato a usare tale potere per ricambiare la generosità interessata.

E infatti Keating, pur essendo un repubblicano, non ebbe alcuna remora a sovvenzionare quattro esponenti democratici: insomma, la dipendenza che si era creata da questo sistema aveva concorso a determinare una perdita di identità3 , e proprio tale scandalo, appunto, determinò il montare definitivo di una pressione per la riforma, anche se l’esito sembrava incerto.

Finalmente, i legislatori stessi ammettevano l’esistenza di un malessere, la necessità di rivedere norme etiche con troppe smagliature, la natura dei rapporti con i gruppi di interesse e, appunto, il sistema di finanziamento delle campagne elettorali. Tuttavia, i progetti di riforma hanno vaste implicazioni per la condotta pubblica e per gli equilibri politici: ad esempio, proprio tra gli effetti dell’intreccio stretto tra Congresso e denaro “interessato” c’è – come meglio si vedrà – il prodursi di una situazione di vantaggio del parlamentare uscente, che troppo spesso svuota la competizione elettorale di ogni significato reale. Non pochi, in effetti, spiegano così l’elevatissimo tasso di rielezione (superiore al 98% alla Camera nel 1988) e – dicevano i Repubblicani – il perpetuarsi del controllo dei Democratici sul corpo legislativo: di qui, dunque, la difficoltà generale di far maturare un consenso sui progetti di riforma di cui si discuteva, che non erano neutri nei 2 Ibidem. 3 Ibidem. loro effetti, con, poi, un contrasto di fondo tra i due maggiori partiti, che conferiva una dimensione particolare al dibattito. E infatti, dietro l’accanimento con cui fu perseguito lo speaker democratico della Camera Jim Wright, anche lui tra le illustri vittime degli scandali, non era difficile scorgere una motivazione di parte, ovvero l’intento dei Repubblicani di usare il fattore morale, in combinazione con una riforma del sistema di finanziamento delle campagne congegnata in modo da ridimensionare i vantaggi dell’uscente, per dare una spallata al controllo democratico del Congresso.

Dopo il Watergate, infatti, il Congresso – cioè i democratici – aveva tenuto costantemente sotto tiro l’Esecutivo, cioè di fatto le Amministrazioni repubblicane, imbrigliandolo con una serie di norme etiche severe e sottoponendolo anche al regime di uno speciale magistrato autonomo dal Dipartimento di Giustizia (norme, queste, da cui però il Congresso si era sino ad allora esentato4 ).

Infatti, mentre il governo federale era tutto sommato protetto dalla corruzione e dai conflitti di interesse (cosa che riguardava anche la riforma delle campagne presidenziali), nel caso del Congresso c’era appunto la sensazione che il sistema corrente che governava la condotta finanziaria dei suoi membri non funzionasse come avrebbe dovuto. Infatti, gran parte delle norme dell’epoca erano in vigore da un decennio, da quando Camera e Senato avevano istituito nella forma contemporanea le commissioni di probiviri e le regole sulla trasparenza finanziaria, in precedenza solo applicate alla Casa Bianca e all’Esecutivo. Ma il tempo e l’ingegnosità degli interessati, appunto, avevano eroso le norme, dando origine a una vasta “aneddotica” e ad una situazione dominata quantomeno dall’apparenza di vistosi conflitti di interesse:

c’era stata una esplosione dei costi delle campagne elettorali, era cresciuto a dismisura il numero dei gruppi di interesse e dei lobbyisti e si era prodotta, in definitiva, una frammentazione del potere in seno al ramo legislativo. Come riporta ancora Brancoli, in un libro pubblicato nella primavera del 1990 da due politologi della Cornell University, Benjamin Ginsberg e Martin Shefter, si sosteneva che gli Stati Uniti stavano entrando in un sistema politico “post-elettorale”, in cui cioè gli interessi in competizione avevano rinunciato a coinvolgere gli elettori e avevano ricondotto lo scontro interamente 4 Ibidem.

entro il “Palazzo”, attraverso gli strumenti dell’azione legale, un flusso incessante di denaro “politico” connesso al lobbying, e i media, mentre la gran parte delle elezioni veniva già decisa ad ogni effetto pratico prima che si aprissero i seggi.

Cosicché, concludevano i due autori, non doveva sorprendere che lo stallo elettorale e la costante lotta istituzionale fossero accompagnati da una caduta continua della partecipazione al voto (appena il 37,6 per cento degli elettori aveva ritenuto di scomodarsi nelle elezioni Congressuali del 19865 ). 2. Tentativi di riforma del Congresso e di George H.W.Bush Tuttavia, proprio la riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali per le cariche federali si rivelava uno degli ossi più duri, sebbene la necessità di “riformare la riforma” del 1974 presentasse più che mai urgenza: i PAC, i candidati e gli stessi comitati nazionali dei partiti, infatti, avevano mostrato una fantasia inesauribile nell’escogitare sempre nuovi modi per aggirare le limitazioni poste dalla legge.

Tra i vari stratagemmi vi erano ad esempio i cosiddetti “leadership PACs”, ovvero PAC creati da personaggi con aspirazioni presidenziali per finanziare l’attività preliminare prima di dichiarare ufficialmente la candidatura e ricadere sotto la normativa che regola le campagne presidenziali. Ma anche gli stessi partiti avevano trovato il modo di aggirare le disposizioni della legge e di reinserire nel circuito i contributi illimitati di miliardari e grandi gruppi di

L’aggiramento della “tempesta”: i fondi “hard” e i fondi “soft” di Democratici e Repubblicani

Il denaro “hard” era quello raccolto nei modi e con i limiti imposti dalla legge per gli incarichi federali; il denaro “soft”, invece, apparteneva tecnicamente a conti “non federali” raccolti dai comitati dei partiti, non soggetti quindi a limiti, divieti e requisiti di trasparenza.

In aggiunta al comitato nazionale di partito, infatti, i democratici e i repubblicani avevano altri due comitati in ciascun ramo del Congresso, il cui compito era quello di raccogliere donazioni per finanziare le campagne con il denaro “hard”, ma disponevano anche di un fondo “soft” che in teoria poteva solo essere usato in connessione con elezioni locali per attività dirette a “costruire” il partito, come la campagna per la registrazione dei cittadini in età di voto e per promuovere l’affluenza ai seggi il giorno delle elezioni. In realtà, però, quest’ultimo fondo diveniva un modo per incanalare ai comitati statali del partito denaro altrimenti illegale, che veniva usato in operazioni di fiancheggiamento delle elezioni congressuali e presidenziali.

In un editoriale del 1990 il New York Times paragonava questo espediente al “collettore sotterraneo di liquido sporco” e, in effetti, con tale sistema, i partiti passarono a incamerare dai 15 milioni di dollari del 1980 ben 100 milioni otto anni dopo. Ovviamente, poi, non esistono obblighi di pubblicità, cosicché restano segreti proprio i contributi maggiori.

Uno studio del Center for Responsive Politics pubblicato nel dicembre del 19896 si concentrava su 28.5 milioni di dollari di contributi privati arrivati alle organizzazioni locali di partito in nove stati durante la campagna del 1988: in nove stati particolarmente importanti per le elezioni presidenziali, cioè, i repubblicani avevano raccolto 16.7 milioni e i democratici 11.8. Ma in quale maniera? La legge sulle elezioni federali, infatti, non consentiva donazioni da parte di aziende e limitava a 1000 dollari per elezione il contributo individuale, senonché molti stati consentivano contributi aziendali e individuali illimitati per le organizzazioni locali di partito.

Ogni parvenza di distinzione tra denaro “soft” e denaro “hard”, dunque, scompariva quando . le donazioni venivano sollecitate direttamente dai segretari amministrativi delle campagne presidenziali (diversi dai segretari amministrativi dei partiti) e venivano poi girate alle organizzazioni statali per coprire spese che altrimenti avrebbero dovuto essere fronteggiate con i fondi del finanziamento pubblico, i quali potevano così essere destinati interamente all’acquisto di campo televisivo per battere a tappeto con gli spot pubblicitari i “mercati” più importanti.

Dunque, nel porre mano a una riforma del sistema di finanziamento delle campagne federali era necessario individuare soluzioni che da un lato non trovassero rimedi ancora più rovinosi per il sistema e dall’altro, non si scontrassero con il Primo Emendamento della Costituzione. A tal proposito, la sentenza della Corte Suprema del 1976 sancì la costituzionalità del limite posto all’importo dei contributi, quella del finanziamento pubblico delle campagne presidenziali e, in questo contesto, di un tetto alle spese elettorali, mentre dichiarò l’incostituzionalità delle norme che stabilivano limiti contributivi per i fondi personali o familiari del candidato, limiti di spesa complessivi della campagna e individuali del candidato, nonché limiti alle “indipendent expenditures”.

Proprio l’assenza di limiti a quanto un individuo poteva spendere di suo, dunque, concorre a spiegare la trasformazione che si operò del Senato in un club di miliardari: il problema principale dell’aspirante che si buttava nella mischia, infatti, era quello di acquisire credibilità, e la chiave della credibilità in quanto candidato era innanzitutto il denaro di cui questi disponeva per finanziare la sua campagna. In questo senso, i miliardari acquisivano una credibilità istantanea, senza neppure dover sprecare tempo a corteggiare finanziatori e senza incorrere nelle spese del fund-raising, e proprio questa capacità illimitata di spesa semplicemente attingendo al proprio patrimonio, costituiva il primo ed essenziale motivo che scoraggiava qualsiasi sfidante privo di una identica fortuna.

D’altro canto, poi, la possibilità che comparisse all’orizzonte un qualche miliardario spingeva gli uscenti ad ammassare veri e propri tesori da spendere nella campagna di rielezione, aumentando così irrimediabilmente la dipendenza dagli interessi organizzati. Ancor oltre, però, un eventuale progetto di riforma doveva fare pure i conti con le finalità diverse che perseguivano i due partiti: al centro della contesa c’era ovviamente sempre il denaro.

Tuttavia i democratici, che avevano una base più ristretta di finanziatori potenziali, temevano la eliminazione o anche solo la riduzione dei finanziamenti PAC, il fattore forse determinante per il loro mantenimento del controllo sul Congresso in questi anni di grande forza repubblicana, e avrebbero accettato, dunque, misure limitative dei PAC solo se fossero stati introdotti il finanziamento pubblico almeno parziale e il tetto di spesa, mentre i repubblicani, che non avevano problemi di reperibilità dei finanziamenti, erano contro i PAC ma anche contro il finanziamento pubblico e il tetto delle spese, ritenendo di dover sfruttare al massimo la propria capacità finanziaria per sfidare gli uscenti (all’epoca in maggioranza democratici). Cosicché, presentando il suo progetto di riforma nel giugno del 1989, il repubblicano Bush aveva non a caso ribadito la sua opposizione sia al finanziamento pubblico che ai limiti di spesa nelle campagne del Congresso, sostenendo che il sistema avrebbe portato ad una erosione della partecipazione al processo politico, che avveniva appunto attraverso il sostegno finanziario ai candidati, i quali avrebbero pur dovuto dimostrare la loro capacità di attirare tale sostegno privato, e avere modo di portare il loro messaggio politico a quanti più elettori possibile.

Occorrevano, invece, secondo Bush, “riforme che riducessero il ruolo degli interessi particolari, accrescessero quello degli individui e rafforzassero i partiti”. Queste, dunque, erano le sue proposte: riguardo i PAC, voleva eliminarli tutti, meno quelli cosiddetti ”ideologici”, dunque via i PAC dei sindacati, delle aziende e delle associazioni di categoria, da cui era venuto quasi il 90 per cento dei contributi ai candidati durante le ultime elezioni, e così pure i “leadership PACs”; quelli sopravvissuti, invece, avrebbero visto ridotto della metà l’importo del contributo massimo a un candidato; invariato, invece, sarebbe rimasto il contributo ai partiti a livello nazionale. Sarebbe rimasta poi la possibilità delle spese “indipendenti”, ma gli elettori, in questo caso, avrebbero dovuto ricevere tutte le informazioni necessarie ad identificare la paternità della campagna che veniva condotta a questo modo pro o contro un candidato. Riguardo i partiti politici, invece,

Bush proponeva che avrebbero dovuto spendere due volte e mezzo la somma che potevano spendere in quel momento per sostenere i propri candidati al Congresso; riguardo i candidati uscenti, poi, i parlamentari non avrebbero potuto più accantonare i fondi avanzati dopo una campagna elettorale e usarli nella elezione successiva, poiché il surplus sarebbe dovuto essere liquidato dopo ogni elezione o girandolo al partito di appartenenza, oppure restituendo i contributi ai donatori, o devolvendolo all’Erario per ridurre il debito pubblico.

Infine, riguardo alle campagne presidenziali, Bush non prevedeva nessun limite alla raccolta e all’impiego di “soft money”, ma pubblicità piene di “entrate” e “uscite” dei partiti a livello federale. Il senso politico complessivo del pacchetto, tuttavia, non era difficile da cogliere: le proposte, infatti, miravano solo a limitare tutti i vantaggi che il sistema attuale assicurava ai democratici sul piano finanziario e con gli strumenti a disposizione degli uscenti, ingigantendo, così, i punti di forza dei repubblicani.

La riforma inviata dal Presidente al Congresso, dunque, si inseriva nella discussione che già impegnava la leadership al Senato in modo informale, e alla Camera una “task-force” bipartitica di sedici membri, e non toccava la Federal Election Commission, creata dal Congresso nel 1974 per assicurare il rispetto delle norme introdotte per regolamentare il finanziamento delle campagne elettorali. La FEC, però, così com’era, era diventata anch’essa parte del problema, in quanto rientravano nelle sue responsabilità l’amministrazione dei fondi pubblici nelle elezioni presidenziali e dei programmi che assicuravano la pubblicità di introiti e spese, l’interpretazione delle leggi elettorali, le indagini delle possibili violazioni e l’avvio di azioni legali nel caso di infrazioni, ed essa lasciava guarda caso assai a desiderare quando doveva far rispettare la legge, finendo per avallare interpretazioni lassiste e chiudere gli occhi su violazioni dello spirito delle norme7 . Nel dibattito pubblico seguito alla presentazione di queste proposte di riforma emerse non soltanto tutta la difficoltà di far maturare un consenso bipartitico, essenziale per la sua traduzione legislativa, ma anche la difficoltà oggettiva di regolare il flusso del denaro nel processo politico democratico, nel momento in cui ci si sforzava di bilanciare l’esigenza di alimentarlo adeguatamente con quella di contenere il peso condizionante dei finanziamenti privati. Peraltro, a prescindere dalla possibilità di raggiungere un accordo politico per l’abolizione dei PAC, era intanto molto dubbio che la distinzione operata da Bush tra PAC “di interesse” e PAC “ideologici” reggesse ad un vaglio costituzionale, e tra le varie obiezioni che venivano mosse a questa, la principale era che, dei due grandi problemi da affrontare, ovvero la quantità di denaro che il candidato doveva raccogliere e la sua provenienza, solo il secondo era messo comunque a fuoco, mentre era il primo a fare da volano al sistema. Per arrivare poi a contenere le spese attraverso i limiti che per la Corte Suprema potevano solo essere volontari occorreva che il candidato avesse l’incentivo del finanziamento pubblico almeno parziale, ma Bush, come detto, l’aveva categoricamente respinto. 7 Ibidem. 3. L’amministrazione Clinton e il proseguimento delle riforme Nel 1992, peraltro in prossimità della scadenza del mandato di Bush, i Democratici riuscirono a far passare un nuovo provvedimento di legge in entrambi i rami del Congresso, ma si si scontrarono direttamente contro il veto del Presidente, e peraltro il tentativo di superare questo fallì per nove voti al Senato.

La successiva elezione di Bill Clinton in quell’anno risollevò le speranze che la legge fosse approvata, con una maggioranza Democratica al Congresso e un Democratico alla Casa Bianca: tuttavia Clinton non fece della questione una delle sue priorità, cosicché i Democratici alla Camera si mossero assai lentamente. Aspettarono, infatti, fino al Novembre ’93 per portare il provvedimento alla Camera e poi fino all’Agosto ’94 per nominare dei relatori che sistemassero le differenze sostanziali con l’analogo bill passato al Senato nel luglio ’93, ma con l’avvicinarsi delle mid-term Congressuali, i Senatori Repubblicani usarono una manovra Parlamentare per bloccare una relazione sul provvedimento .

Le speranze di superare lo stallo furono di nuovo riaccese l’11 giugno 1995, quando nel New Hampshire Clinton e Gingrich, stringendosi la mano, fecero la promessa solenne di creare una commissione bipartisan per riformare le leggi sui finanziamenti delle campagne elettorali: ma ancora una volta queste speranze furono rapidamente deluse. Nel giro di una settimana, infatti, Clinton propose di creare una commissione le cui risoluzioni sarebbero state inviate al Congresso per un voto diretto, senza possibilità di emendamenti; Gingrich chiamò la mossa del Presidente un “espediente”, ma aspettò fino a novembre per fare la sua proposta, ovvero una commissione meno potente senza una procedura di voto diretta, cosicché, alla fine dell’anno, i riformatori sarebbero stati costretti ad ammettere che l’idea della Commissione era ormai fallita.

Di fronte, dunque, all’apparente impossibilità di procedere su questa strada, alcuni congressman portarono avanti tentativi indipendenti, come la parlamentare della Camera Linda Smith, seguita dal collega Christopher Shays e 8 Campaign Finance Reform, CQ Almanac; Kenneth Jost; CQ Press; 1996 da diversi altri esponenti Democratici, attraverso un bill chiamato Bipartisan Clean Congress Act, nel 1995. Il progetto analogo al Senato – il Senate Campaign Reform Act, dello stesso anno – veniva messo assieme dal Repubblicano John McCain dell’Arizona e dal Democratico Russ Feingold, seguito dal “freshman” Fred Thompson del Tennessee. Sul primo fronte, la Smith intendeva usare una cosiddetta “dischargepetition” per portare il provvedimento fuori dalla commissione,nell’aula della Camera, pur essendo questa un’opzione dall’assai difficile riuscita, mentre al Senato i promotori del bill vedevano maggiore facilità per l’approvazione. 3.1 Tra lotta alle lobby e proseguimento della deregulation.

Frattanto, un altro anno di elezioni si avvicinava e molti membri del Congresso annunciavano che non si sarebbero ricandidati perché ormai scettici sulla reale capacità dell’istituzione di portare cambiamento: cosicché, in questo clima di crescente sfiducia e urgenza di riformare il sistema, anche il Presidente Clinton aggiunse la sua voce nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio ’96. Dopo essersi congratulato con i parlamentari per aver rafforzato la trasparenza nel ricorso ai lobbisti e aver bandito regali e pranzi con questi, il Presidente affermò che voleva “sfidare il Congresso ad andare oltre, eliminando l’influenza degli interessi particolari sul sistema attraverso il passaggio del primo provvedimento bipartisan di riforma del sistema di finanziamento elettorale”9 . Osservatori esterni, tuttavia, espressero da subito scetticismo sulla possibilità che il crescente scontento riguardo i metodi di finanziamento delle campagne avrebbe realmente spinto il Congresso ad agire, e questo perché, come affermava il professore di scienze politiche della New York University Candice Nelson, non si trattava di una questione “calda” per gli elettori, dunque i membri del Congresso non vedevano questi metter loro pressione e chiedere cosa avrebbero fatto con la riforma .

Ciavia rittu a Mi cucinu Carmelu chi vulia fari u Presidenti NAMERICA, poi vitti q 𝟭𝟰 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮𝗿𝗱𝗶 un ci lavia scanciati e lassai stari.

Se un presidente AMERICANO spende 14 MILIARDI per essere ELETTO. MI DONANDO. Q glieli DA?? e COME LI RESTITUISCE:?

E CHI PERDE CHE HA SPESO ANCHE LUI 14 MILIARDI COME FA???

So facendo uno studio che posterò nel Blog nelle prossime settimane. Dove si evincerà Facilmente, PQ l’America è Sempre in Guerra. PQ l’Oligarchia in AMERKA E’ così Ossessiva. IL Ruolo degli Ebrei. Vi prometto q i non addetti ai lavori rimarranno disgustati

Anche non considerando la spesa dei miliardari Bloomberg e Tom Steyer, i candidati e i gruppi Democratici hanno speso 5,5 miliardi di dollari rispetto ai 3,8 miliardi di dollari dei Repubblicani. Mai nella storia i Dem avevano avuto un vantaggio finanziario così grande.

In queste elezioni sta crescendo anche la “quota rosa” delle donazioni. Le donne che hanno donato rappresentano il 44% sul totale, molto di più rispetto al 37% del 2016. Ad aumentare è anche l’ammontare complessivo di queste donazioni, si  passa, infatti, da 1,3 miliardi del 2016 a 2,5 miliardi di dollari registrati fino a metà ottobre.

I piccoli donatori – coloro che donano somme pari o inferiori a 200 $ – rappresentano il 22,4% del totale, un dato in forte crescita rispetto al 15,6% del 2016. I numeri delle loro donazioni fanno registrare nuovi record per entrambi gli schieramenti. Anche qui, però,  i Democratici con 1,7 miliardi di dol

Ma i più ricchi continuano ad esercitare la loro influenza a colpi di grandi donazioni. La cifra stanziata dai primi 10 donatori è di 642 milioni di dollari, circa il 5% del totale. Sul mondo dei grandi donatori che sostiene Donald Trump è intervenuto, nel corso della diretta sui nostri social, Mattia Diletti che insegna Scienza della politica all’Università «La Sapienza» di Roma: “Andando a spulciare tra i settori e nello specifico tra i nomi dei grandi finanziatori, ci sono tanti amici del presidente Trump. Pensiamo al settore dei casinò.

C’è un grandissimo magnate con base a Las Vegas che è il più grande donatore individuale della campagna di Trump. Altri “amici di Trump” si registrano nel “Real Estate” , ovvero, il settore degli investimenti immobiliari che lo sta sostenendo in larga parte. A volte è molto difficile vedere la separazione tra l’azione presidenziale di Trump e le dinamiche privatistiche e queste donazioni sembrano confermare questa idea: è soprattutto il mondo che ruota attorna a lui che si mobilita per sostenerlo a cui si aggiungono alcuni importanti settori che tradizionalmente aiutano i Repubblicani.”
Il riferimento al magnate dei casinò di Las Vegas, è a Sheldon Adelson, che insieme con sua moglie Miriam, un medico, ha donato 183 milioni di dollari ai Repubblicani, facendo segnare un altro piccolo record: questa è la somma più grande versata da una coppia in una singola elezione.

Sul 13% rappresentato dalle quote di autofinanziamento da parte dei candidati, pesa sicuramente, come già ricordato, la campagna miliardaria di Bloomberg. Stanno perdendo invece terreno i PAC tradizionali – il cui limite di contributo è di $ 5.000 – scendendo al 5% del totale rispetto al 9% del 2016. Su questo calo, pesa da un lato il mancato adeguamento dei limiti di contribuzione di questi comitati, fermi ormai da dieci anni, dall’altro i soldi provenienti dalle aziende sono considerati “tossici” da tantissimi nuovi candidati Democratici al Congresso che preferiscono compensare queste perdite con le piccole donazioni (e ci stanno riuscendo benissimo).

Secondo le analisi di OpenSecrets del 3 novembre scorso, il costo totale delle elezioni statali e federali di medio termine del 2022 supererà i 16,7 miliardi di dollari. I candidati federali e i comitati politici (Political Action Committees – Pac) avrebbero speso 8,9 miliardi di dollari, mentre i candidati statali, i comitati di partito hanno messo sul piatto 7,8 miliardi di dollari.

Da dove arrivano le donazioni

Una montagna di soldi è andata alla competizione per il controllo di Camera e Senato, soprattutto in Pennsylvania, Georgia, Arizona a Ohio ed è arrivata dalle super Pac (Political Action Committees) collegate alle leadership del Congresso.

Ma cosa sono questi Political Action Committees? La maggior parte dei soldi che finanziano le campagne provengono quindi dai Pac (Political Action Committees), i comitati di azione politica in gran parte non regolamentati.

I Pac sono organizzazioni di gruppi industriali, sindacati o singole aziende di raccolta fondi che appoggiano un politico o un partito in maniera privata e hanno la capacità di influenzare l’opinione pubblica a sostegno del candidato. I Pac, regolamentati del Comitato elettorale federale (Fec), si dividono in tre tipi: tradizionali, super o ibridi. Le regole sulla quantità di denaro che un comitato può ricevere in donazioni o su come operano questi comitati sono diverse a seconda del tipo di Pac.

Andiamo con ordine. I Pac tradizionali sono soggetti a limiti di spesa e donazione e possono spendere fino a un massimo di 5000 dollari per candidato a ogni elezione; tuttavia, non sono gestiti direttamente da partiti o da singoli candidati.

Ci sono poi i super Pac. Nati nel 2010, si contraddistinguono perché non possono versare direttamente denaro ai candidati, ma possono spendere liberamente i loro fondi per pubblicità politiche e attività indipendenti finalizzate a influenzare l’opinione elettorale. Inoltre, non devono affrontare limiti di donazione, il che significa che singoli individui o società possono donare una quantità illimitata di denaro ai super Pac. L’abbattimento di questi limiti ha reso i super Pac attori fondamentali nelle elezioni statunitensi.

E infine ci sono i Pac ibridi che hanno un doppio conto: uno che funziona come quello di un Pac tradizionale, con limiti di contribuzione, e l’altro che funziona come quello di un super Pac, che effettua solo spese indipendenti. Al di là delle specifiche differenze, secondo la Campaign Finance Law, la legge che regola i finanziamenti politici, tutti i Pac sono tenuti a rivelare l’importo totale di denaro ricevuto, nonché i nomi, gli indirizzi, i datori di lavoro e le occupazioni di qualsiasi persona che dona loro più di 200 dollari in un anno.

Quanto hanno contribuito i Pac in nelle elezioni di midterm 2022? Stando ai dati raccolti dall’organizzazione no profit di Usa Facts, a metà settembre del 2022, i Pac hanno speso un totale di 5,89 miliardi di dollari per le elezioni di midterm di quest’anno. Circa il 50% di tale spesa proviene da Pac ibridi, il 32% da Pac tradizionali e il 18% da super Pac. La stragrande maggioranza della spesa proveniente dai Pac ibridi arriva dai loro conti di spesa indipendenti che non sono soggetti a limiti.

Chi finanzia i Pac, quindi? Individui, società e altri gruppi politici (come i comitati dei candidati) contribuiscono a finanziare le diverse tipologie di Pac. Ma con l’allentamento delle leggi sul finanziamento delle campagne elettorali negli ultimi decenni, i contributi di megadonatori sono aumentati e sono stati indirizzati maggiormente ai Pac ibridi.

Per queste elezioni di midterm, i miliardari i americani non hanno badato a spese: secondo i dati della Federal Election Commission, i super ricchi degli Usa hanno versato complessivamente 1,1 miliardi di dollari ai comitati politici e ad altri gruppi attivi nella campagna elettorale. 

Midterm, gli 8 duelli che decideranno le sorti del Senato

Dagli imprenditori miliardari ai magnati della tecnologia fino ai gestori di fondi investimento, questi megadonatori sono in maggioranza repubblicani: i miliardari rappresentano il 20% delle donazioni repubblicane totali rispetto al 14,5% delle donazioni democratiche. In cima alla classifica dei ‘mega-donors’ c’è ancora una volta il finanziere di origini ungheresi George Soros, che ha staccato un assegno da 128,5 milioni di dollari però per i democratici. Ci sono poi i piccoli donatori, che devolvono meno di 200 dollari all’anno e per questo sfuggono dal raggio della registrazione imposta dalla Campaign Finance Law. 

Perché e come i candidati negli Usa spendono così tanti soldi

Osservare il flusso di denaro rivela molte cose su come stanno cambiando gli Stati Uniti, perché è fondamentale guardare come vengono finanziate le campagne politiche e come vengono spesi i fondi dagli stessi candidati. 

Le scelte che i candidati fanno dimostrano quali sono le loro priorità: viaggiare e tenere comizi in un determinato luogo e spendere gran parte dei finanziamenti per pubblicità in Tv o per sponsorizzazioni sui social media significa voler parlare a una fetta precisa di elettori.

Se il 2012 è stato l’anno delle elezioni dei social network, il 2022 rappresenta la svolta delle pubblicità su piattaforme streaming. Questo tipo di mezzo ha un particolare vantaggio: la Tv connessa e lo streaming consentono il “micro-targeting” degli spettatori fino al livello familiare, cosa che non è possibile attraverso la trasmissione televisiva, dove i mercati dei media sono molto più grandi; inoltre, consente di sfuggire alla propaganda russa presente sui social media. 

C’è poi la macchina del fango, alimentata con il denaro dei super Pac. Le campagne pubblicitarie denigratorie nei confronti di un’etnia o di un avversario politico (o persino di un suo familiare) sono diventate uno strumento eccezionale per la polarizzazione del dibattito politico. Uno strumento che funziona.

Ma quanto sono utili per i candidati queste donazioni? Di solito vince il candidato che spende più soldi durante la campagna elettorale, soprattutto quelle presidenziali. Ma la spesa non è l’unico fattore decisivo per ottenere la vittoria.

Questo enorme giro di soldi che sostiene le elezioni ha un principale obiettivo per i candidati: ottenere la fiducia di elettori e sostenitori, per indirizzare il dibattito politico su temi divisivi o su interessi di un piccolo ma fondamentale gruppo di una contea di uno stato. Ma dal 9 novembre, quando si avranno i primi risultati del voto del midterm 2022, inizia la vera campagna elettorale per le presidenziali del 2024. E iniziarà nuovamente la raccolta dei fondi, che giocheranno ancora un ruolo crucial

LOBBY

Negli Stati Uniti ha assunto il significato attuale, cioè di pressione per ottenere una legge a favore, due secoli fa, all’inizio del 1800, quando l’appellativo di “lobby-agents” venne attribuito a tutti quelli che cercavano di fare pressione sui membri del Congresso di Albany, la capitale dello Stato di New York.

Una versione più romanzata vuole che il primo vero lobbista della storia americana fosse stato il presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant, tra il 1869 e il 1877, quando soggiornava al Willard Hotel, a pochi passi dalla Casa Bianca, e nella “lobby” riceveva persone che chiedevano interventi particolari.

Vennero chiamati “lobbisti” e a lungo restò un termine nobile, considerato pilastro della democrazia, ma diventato negativo a causa di pratiche poco trasparenti. Proprio per salvare la natura di questo istituto democratico, il Congresso approvò nel 1946 una legge, il Federal Regulation of Lobbying Act, secondo cui “chiunque individualmente, o attraverso un loro agente o impiegato o altre persone di qualunque tipo, direttamente o indirettamente sollecita, raccoglie o riceve denaro o altre cose di valore da usare principalmente per aiutare l’approvazione o la bocciatura di qualsiasi legge da parte del Congresso” doveva entrare in uno “specifico Albo”.

Il lobbista aveva l’obbligo di dichiarare per chi lavorava e quello di redigere ogni quattro mesi un rapporto con informazioni sulla propria attività. Le notizie ancora oggi vengono raccolte nel Registro del Congresso, e possono essere usate in caso di omissioni o trasgressioni. La definizione su chi potesse fare il lobbista è arrivata, però, solo nel 1995 con il “Lobbying Disclosure Act”. Il lobbista è chiunque “impiegato o stipendiato tramite compensi finanziari o non per servizi che includano più di un contatto lobbistico”.

Per “contatto” si intende ogni comunicazione orale o scritta, anche per posta digitale, inviata a un rappresentante del Congresso o dell’amministrazione. Viene fissato anche un limite minimo di tempo per fare il lobbista: almeno il venti per cento del proprio orario di lavoro deve essere dedicato alla persona su cui fare lobby, in un arco di sei mesi. Tre sono i modi codificati per fare lobbying e, naturalmente, non è compresa la classica valigetta con i dollari.

La formula più diffusa prevede che il lobbista incontri il legislatore faccia a faccia con un appuntamento messo in programma per iscritto. È consigliato presentarsi con una sinossi di una pagina e prevedere che il tempo non superi i venti minuti. In alternativa, il lobbista può incontrare un membro dello staff del legislatore, procedura più consigliata perché aumentano le possibilità di essere ascoltati. Ma dipende dal tipo di azienda.

I lobbisti più esperti e conosciuti al Campidoglio, a volte ex politici, spesso analisti e top manager, possono saltare tutta la procedura e andare direttamente al sodo, saltando la trafila: possono muoversi nei corridoi di Capitol e intercettare il politico di riferimento. Tra le tecniche usate c’è quella di offrire un posto ben retribuito da lobbista a un membro dello staff del legislatore, in modo da invogliarlo a seguire con attenzione il caso. Ma poi per il passaggio da un ruolo all’altro servirà una finestra di almeno un anno.

Nel 2007, dopo lo scandalo Abramoff, un caso di corruzione che coinvolse una ventina di membri del Congresso, il presidente George W. Bush introdusse controlli più severi e l’obbligo per i lobbisti di dettagliare la propria attività ogni tre mesi, e non più quattro. Tutti i membri del Congresso da allora devono dichiarare il totale dei contributi elettorali ricevuti sia da privati sia da aziende. Inoltre non possono accettare regali e devono aspettare almeno due anni prima di passare, eventualmente, dall’altra parte e svolgere attività di lobby.

Fino al 2020, secondo un’analisi del Wall Street Journal, Facebook e Amazon sono state le prime aziende in Usa per attività di lobbying, con una spesa, ciascuna, tra i diciotto e venti milioni di dollari l’anno. Nel 2021 la spesa maggiore è stata fatta dalle Camere di commercio americane, con 66,4 milioni di dollari, seguite dal settore immobiliario, con 44 milioni, e quello farmaceutico e manufatturiero, 29 milioni. Meta ha speso 20 milioni, Amazon 19,3. 

STATI UNITI, LA REPUBBLICA DEGLI OLIGARCHI

Il sistema politico americano è gestito da una ristrettissima élite fondata sulla ricchezza e radicata nelle grandi famiglie. Il Congresso è centrale, le lobby pure, la Casa Bianca molto meno. È ora di riformare l’assetto ideato dai padri fondatori.

Piuttosto, nella parziale indifferenza dei media, negli ultimi anni si sono consumati sviluppi potenzialmente decisivi per il futuro della repubblica. Ad esempio la definitiva conquista della scena politica da parte degli oligarchi, termine solitamente tabù, e la nascita delle cosiddette primarie informali. Nel 2010 con la sentenza Citizens United vs. Federal Election Commission, la Corte suprema ha permesso a individui e a società private di finanziare ad libitum i singoli candidati, a patto che non esista diretto coordinamento tra di loro e che i fondi siano elargiti dai comitati politici (super pacs). Ne è scaturita un’immissione incontrollata di denaro nel processo elettorale e il depotenziamento dei piccoli finanziatori, che prima raggiungevano con facilità il tetto imposto dei 5 mila dollari. Proprio mentre la crisi economica accresceva il peso specifico dei super-ricchi con i 400 americani più abbienti che dal 2011 dispongono di un patrimonio superiore alla somma di quelli detenuti dal 50% dei restanti cittadini7. Così per scegliere su chi puntare da alcuni anni industriali e finanzieri, vicini sia ai repubblicani sia ai democratici, indicono convegni clandestini, rigorosamente chiusi al pubblico e ai media, in cui vagliano le posizioni di potenziali candidati.


I summit sono numerosi. I fratelli Charles e David Koch, industriali siderurgici e petroliferi, ogni sei mesi organizzano in California un esclusivo evento – denominato the seminars – al quale partecipano influenti esponenti del Grand Old Party come Jeb Bush, il governatore del Wisconsin Scott Walker, i senatori Rand Paul e Ted Cruz.

Nel corso di una tre giorni fitta di incontri e dibattiti si discute della possibilità di approvare sgravi fiscali in favore delle classi più agiate, di strategie per aumentare la produttività industriale e di commercio con l’estero. In ballo c’è quasi un miliardo di dollari che i Koch e i loro alleati promettono di sborsare soprattutto per sconfiggere Hillary Clinton. Lo stesso vale per il re dei casinò, Sheldon Adelson, che allestisce a Las Vegas le sue primarie personali. Ebreo ortodosso, ottavo uomo più ricco del mondo, alleato del premier Netanyahu, Adelson è soprattutto interessato a impedire la legalizzazione del gioco d’azzardo online, nonché ad affossare l’apertura obamiana all’Iran e il negoziato israelo-palestinese. Sul fronte democratico è Tom Steyer, manager di hedge funds con un patrimonio da 118 miliardi di dollari, a invitare ciclicamente i leader della sinistra nel suo ranch di Pescadero, in California, per testarne l’opinione su argomenti green. Dopo aver finanziato nel 2013 la vittoriosa corsa a governatore della Virginia di Terry McAuliffe ed essere stato sconfitto proprio dai Koch nelle ultime elezioni di metà mandato, malgrado una spesa di 70 milioni di dollari, in vista delle presidenziali Steyer ha intenzione di sborsare «una cifra illimitata» per sostenere esponenti ambientalisti. Secondo molti osservatori sarebbe stato lui nel 2014 a convincere Obama e i parlamentari liberal a respingere la realizzazione dell’oleodotto Keystone XL 10 che avrebbe dovuto condurre dal Canada al Texas il petrolio estratto da sabbie bituminose. Più discreto l’arcinoto finanziere George Soros, nel 2008 tra i principali sostenitori di Obama, che partecipa soltanto a incontri bilaterali.


Considerate le cifre offerte, mostrarsi in sintonia con i desiderata degli oligarchi può rivelarsi vitale. E una semplice gaffe può costare molto cara. È capitato al governatore del New Jersey, Chris Christie, in occasione del vertice organizzato da Adelson nel marzo 2014. Nel tentativo di conquistarsi le simpatie del padrone di casa, sul palco del casinò The Venetian Christie raccontò di un viaggio effettuato in Israele due anni prima. «Dopo essere stato a Gerusalemme, ho sorvolato i territori occupati [ sic ]. In quell’occasione ho potuto vedere con i miei occhi il clima ostile con cui Israele deve fare i conti ogni giorno», spiegò sicuro di blandire il suo interlocutore. Adelson però non ritiene la Cisgiordania un territorio occupato, né tantomeno crede che i coloni israeliani siano stanziati su terre altrui. E da allora ha preso le distanze dal governatore. Stessa sorte per Rand Paul che lo scorso gennaio, durante il summit voluto a Rancho Mirage in Califor­nia dai fratelli Koch, ha prima proposto di concludere un accordo commerciale con la Cina, quindi ha criticato l’attività di lobbying condotta dalle grandi industrie. Accusato di lesa maestà, Paul è finito all’ultimo posto nel sondaggio realizzato ad uso interno durante l’incontro 11.


4. Lo strapotere dei grandi finanziatori sta inevitabilmente rivoluzionando la competizione elettorale. Gli effetti del fenomeno sono parsi evidenti già durante le presidenziali del 2012. Per la prima volta i super-ricchi spesero più dei partiti e lo scontro tra magnati provocò lo sconvolgimento delle consultazioni repubblicane, con conseguente indebolimento di Mitt Romney. Le primarie sono governate da dinamiche predefinite e di norma solo pochi candidati le affrontano con il reale obiettivo di vincere.

A differenza di quanto avviene in Europa, negli Stati Uniti la campagna elettorale si svolge preminentemente dal basso verso l’alto e la costruzione sul territorio nazionale di una capillare rete di comitati organizzativi richiede notevoli mezzi finanziari. Così i politici che non hanno a disposizione tali risorse scendono in campo per ragioni accessorie: acquisire un profilo nazionale, pubblicizzare iniziative extraelettorali, oppure per offrirsi al futuro vincitore come potenziali vicepresidenti. Nel 2012 pressoché ogni sfidante di Romney era in corsa esclusivamente per ottenere notorietà. L’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, da anni lontano dalla scene, puntava a incrementare le vendite dei suoi libri; l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, intendeva invertire la parabola discendente della sua carriera; l’imprenditore Herman Cain semplicemente sperava di accedere alla ribalta nazionale. A dimostrazione del tenore assai poco bellicoso della contesa, all’inizio della campagna elettorale Gingrich abbandonò comizi e fundraising per concedersi una crociera nel Mare Egeo con sua moglie Calista. Mentre Herman Cain, in barba alle più elementari regole dello scontro elettorale, non si premurò neanche di comprare il silenzio di una sua storica amante che, come facilmente prevedibile, alcuni mesi dopo riemerse dall’oblio. Nessuno immaginava, tantomeno i diretti interessati, che i miliardari della destra avrebbero adottato candidati tanto improbabili, inondandoli di denaro. In particolare Adelson versò 21 milioni di dollari a un super pac vicino a Gingrich che improvvisamente iniziò a negare l’esistenza della Palestina e che, grazie agli inaspettati fondi, si aggiudicò il cruciale Stato della Carolina del Sud. Solo dopo essersi recato personalmente a Las Vegas, Romney riuscì a convincere Adelson ad abbandonare Gingrich, promettendo al magnate di convertirsi nel più ostinato difensore d’Israele. Tuttavia il finanziere del Wyoming Foster Friess, con alcuni milioni di investimento, consentì all’italo-americano Santorum di aggiudicarsi ben undici Stati (tra questi i rilevanti Iowa e Colorado) e di prolungare le primarie fino a metà aprile.

Anatema per qualsiasi aspirante alla Casa Bianca, che in condizioni normali punta a chiudere la contesa per le idi di marzo, così da smettere i panni del leader radicale e guadagnare il centro per affrontare il rivale dell’altro partito. Costretto a devolvere tempo e risorse in una gara ritenuta vinta in partenza, nei mesi successivi Romney non riuscì a reinventarsi. Anche perché intanto la macchina elettorale di Obama aveva raccolto oltre un miliardo di dollari, grazie ai finanziamenti di molti oligarchi vicini alla sinistra. Tra gli altri: Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Fred Eychaner, grande editore televisivo di Chicago; Irwin Jacobs, fondatore di Qualcomm, la multinazionale specializzata nella produzione di semiconduttori.


«I super-ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro»12, ha sentenziato l’autorevole editorialista del Washington Post Dana Milbank. La svolta appare inarrestabile. In vista del 2016 i concorrenti in corsa per la presidenza sono impegnati in questi mesi ad assicurarsi i finanziatori più munifici. I giochi non sono ancora decisi, ma alcuni accoppiamenti sono già ufficiali. George Soros, che nel 2014 è stato nominato tra i manager del super pac Ready for Hillary, e tutti i principali finanziatori di Obama si sono schierati al fianco della Clinton. Tra questi proprio Katzenberg, Eychaner e Jacobs;

il produttore televisivo e in passato proprietario di Abc Family Haim Saban; il manager di hedge funds James Simons; il costruttore Eli Broad; l’ex partner di Goldman Sachs, Daniel Neidich; la produttrice della serie televisiva Homeland, Marcy Carsey. Hanno invece abbracciato la candidatura di Jeb Bush: l’albergatore Gordon Sondland; il patron dei New Jersey Jets, Woody Johnson; l’ex padrone dei Seattle Mariners, George Argyros. Al contrario, Wall Street si divide equamente tra Jeb e Hillary. I fratelli Koch, almeno inizialmente, finanzieranno Bush junior, Scott Walker e Marco Rubio, che ha dalla sua anche Norman Braman, proprietario di un’immensa catena di concessionarie d’auto. Mentre Robert Mercer, un manager di hedge funds del New Jersey, ha scelto il senatore del Texas Ted Cruz. Infine Adelson e Steyer si riservano il diritto di schierarsi in una fase successiva della competizione.


5. Benché la quantità di soldi destinati alle consultazioni elettorali sia cresciuta esponenzialmente, tanta disponibilità non ha risolto l’annoso problema dei debiti dei candidati. Coloro che aspirano alla presidenza accumulano passivi rilevanti nel tentativo di centrare l’obiettivo, rendendosi ricattabili o autoeliminandosi dalla competizione. Si tratta di parcelle, conti e bollette in favore di consulenti, strateghi, società di telecomunicazioni e immobiliari di cui i candidati si sono serviti in campagna elettorale e che non hanno saldato perché nel frattempo hanno esaurito i fondi. I lunghi e imbarazzanti contenziosi legali che ne derivano riguardano alcuni dei nomi più noti della politica nazionale. Bill Clinton deve ancora estinguere un debito di 100.080 dollari risalente alla campagna di rielezione del 1996 e costituito dall’onorario di tre società di comunicazione 13. John Edwards, sconfitto nel 2004 alle primarie democratiche da John Kerry e poi da lui selezionato per il ruolo di vicepresidente, a tutt’oggi ha un passivo di 331 mila dollari, di cui 226 mila da versare allo studio legale Ryan, Phillips, Utrecht & McKinnon. L’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, presentatosi senza successo alle primarie repubblicane del 2008, solo cinque anni dopo ha saldato un buco da 2,7 milioni di dollari. A pretendere il dovuto erano i principali operatori di telefonia mobile d’America (342 mila dollari); numerose agenzie immobiliari (107 mila dol­lari); altre società specializzate in comunicazione (112 mila dollari) e fornitori di vario tipo. Lo stesso vale per Hillary, che nel gennaio del 2013, con il pagamento di un’ultima pendenza da 245 mila dollari alla società di consulenza politica di New York Penn, Schoen & Berland, ha finalmente estinto un debito da circa 20 milioni di dollari contratto durante le consultazioni democratiche del 2008. Negli anni la Clinton si è industriata per colmare il disavanzo. Nel dicembre del 2011 mise in vendita il merchandising della sua avventura elettorale: t-shirt, spille, poster, autografi e il dvd dell’orazione che pronunciò alla convention di Denver. Nel 2012 cedette per 50 mila dollari la lista dei suoi contatti all’attuale senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Nell’èra di Citizens United il problema s’è addirittura aggravato. Durante le presidenziali del 2012 molti candidati hanno rischiato di finire letteralmente sul lastrico. Convinti di avere una disponibilità finanziaria illimitata, ma impossibilitati dalla legge a utilizzare direttamente i soldi versati dai finanziatori esterni, in molti casi i potenziali presidenti hanno speso nettamente più di quanto potessero. Newt Gingrich è tuttora chiamato a ripianare un passivo di 4,8 milioni accumulato quasi tre anni fa, quando finì sui giornali l’umiliante vicenda di un assegno di appena 500 dollari staccato a suo nome e non incassato perché scoperto 14. Newt deve oltre un milione alla Moby Dick Airways, una compagnia di voli charter; 407 mila alle guardie del corpo; 280 mila a uno studio di consulenza legale; 181 mila a una società di pubbliche relazioni; 165 mila ad alcune concessionarie pubblicitarie; 36 mila dollari agli spedizionieri di FedEx 15. A sua volta Rick Santorum deve colmare un ammanco da oltre 600 mila dollari, composto per 430 mila dollari dalla parcella di una società di consulenza politica della Pennsylvania, la Brabender & Cox. Mentre Michele Bachmann, ex deputata del Minnesota, lo scorso anno ha finalmente ripagato un rosso da oltre un milione di dollari, accumulato in appena un mese di primarie. Spesso il debito incide sensibilmente sull’esito delle elezioni, con i candidati in bolletta che barattano il proprio sostegno con il pagamento dell’ammanco da parte dello sfidante più munifico. Nel 2008 Hillary Clinton promise di appoggiare Obama anche perché l’entourage del futuro presidente promise di impegnarsi finanziariamente in suo favore. Una promessa che Barack ha mantenuto nel corso degli anni. Allo stesso modo nell’estate del 2011 l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, sposò la candidatura di Romney dopo che questi si intestò gran parte del suo debito (330 mila dollari su 454 mila totali). Solo Santorum nell’aprile del 2012 respinse la corte dell’ex governatore del Massachusetts, che era pronto a staccare un generoso assegno, perché in cambio chiedeva un ruolo in una futura amministrazione repubblicana.


6. In contemporanea con l’ascesa degli oligarchi s’è compiuta la trasformazione della politica statunitense in una questione tribale. Uno sviluppo che pre­clude l’accesso ai parvenus e riconosce a pochissimi l’elettorato passivo per le massime cariche. I padri fondatori si schierarono da subito contro la nascita delle dinastie – George Washington temeva a tal punto d’essere scambiato per un monarca che rifiutò il titolo protocollare di Sua Altezza (His Highness) – ma l’influenza dei grandi clan è ormai smisurata. La famiglia dei Frelinghuysen a parte brevi interruzioni ha avuto un proprio esponente eletto al Congresso dal 1793 ad oggi, ovvero da quando il generale rivoluzionario Frederick Frelinghuysen divenne senatore per lo Stato del New Jersey. I Kennedy negli ultimi cinquant’anni hanno avuto un loro discendente al Campidoglio in ogni legislatura, tranne la terzultima (dal 2013 è deputato per il Massachusetts Joseph P. Kennedy III, nipote di Robert). Al momento ci sono al Congresso 39 figli di ex parlamentari e tanto il primo cittadino della California, Jerry Brown, quanto quello di New York, Andrew Cuomo, sono eredi di altrettanti governatori (Pat e Mario).


La deriva clanica emerge con ulteriore chiarezza nella corsa alla presidenza. Alcuni dati sono sbalorditivi. Tra il 1976 e il 2016 avrà sempre corso alla presidenza o alla vicepresidenza il figlio o il nipote di un senatore. Dal 1928 i repubblicani sono riusciti a conquistare la Casa Bianca solo se nella proposta elettorale era presente un Bush o un Nixon. E con la candidatura di Jeb Bush, fratello di George Walker, nel 2016 sarà la settima volta nelle ultime nove elezioni che un Bush si presenta per la carica di presidente o di vice. Troppo perfino per la matriarca Barbara Pierce Bush, moglie di George Herbert Walker, che nel 2013 si è espressa contro il proposito di suo figlio Jeb. «L’America è una grande nazione e ci sono molte famiglie importanti, non siamo solo quattro dinastie. Mi rifiuto di accettare l’idea che non ci siano altre persone meravigliose che dovrebbero ambire ad essere elette»16, ha dichiarato con inaspettato candore. Peraltro nelle primarie repubblicane Jeb sfiderà Rand Paul, figlio del ginecologo Ron che ha corso per la Casa Bianca in tre occasioni, e in caso di nomina potrebbe vedersela con Hillary Clinton, altro membro di una storica dinastia. «Siamo onesti, la presidenza non è una corona che possono tramandarsi due sole famiglie. È un’istituzione straordinaria e sacra. Abbiamo bisogno di un leader che si batta finalmente contro gli interessi dei ricchi e dei potenti»17, ha dichiarato sul tema l’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, tra i pochi esponenti privi di legami familiari.

Se la politica è retta dalle grandi dinastie, da decenni la sfera amministrativa è appannaggio dei lobbisti. Contrariamente a quanto accade in Italia, dove il potere burocratico è gestito dai dipendenti statali, negli Stati Uniti gli unici che tecnicamente conoscono le questioni parlamentari e la macchina governativa sono gli agenti di pressione che svolgono le loro funzioni nell’interesse dei clienti. Di frequente senza neanche esplicitare il mestiere e muovendosi dietro le quinte. Con evidente annullamento della responsabilità personale e politica. A determi­narne l’affermazione è stato l’approccio al tempo stesso sprovveduto e utilitaristico adottato proprio dai framers e dai leader storici della nazione. In particolare, a porre le basi della situazione attuale è stato il presidente Andrew Jackson. Con l’obiettivo di ripagare chi ne aveva sostenuto l’ascesa e impedire il radicarsi di una classe dirigente eminentemente tecnica che avrebbe abitato a lungo la pancia dello Stato, nel 1829 Jackson inaugurò lo spoils system, la pratica con cui il leader appena eletto assegna cariche e poltrone ai membri del suo partito. Ma la riforma ha prodotto una conseguenza inaspettata. Estromessi dai palazzi del potere, nel corso del tempo i funzionari e i parlamentari più competenti si sono trasformati in lobbisti e hanno continuato a gestire gli affari governativi dall’esterno. Per conto del settore privato. Nello specifico, i lobbisti realizzano analisi e papers su cui deputati e senatori formano la loro opinione; redigono le proposte di legge; introducono i consiglieri elettorali a dossier esclusivi; guidano i congressisti neoeletti, provenienti dalla provincia e a digiuno di politica federale; realizzano incontri tra parlamentari di partiti diversi; segnalano l’apprezzamento e il malcontento delle grandi aziende; fungono da intermediari tra gli oligarchi e i candidati; conducono sondaggi d’opinione; consigliano presidenti e ministri; custodiscono la memoria storica della politica americana. La loro rilevanza è testimoniata dal mutevole atteggiamento adottato in materia da Obama. Convinto d’essere alla testa di una rivoluzione culturale e scarso conoscitore dell’amministrazione pubblica al termine di una sola legislatura trascorsa in Senato, nel 2008 Barack promise ufficialmente di ridurne l’influenza. «Chiuderemo la porta girevole che permette ai lobbisti di entrare nel governo per poi sfruttare le loro conoscenze in ambito privato» 18 , proclamò in campagna elettorale. Tuttavia, conquistata la Casa Bianca e chiamato a governare il paese, il neopresidente ne comprese immediatamente l’indispensabile apporto. Tra il 2008 e il 2013 il suo governo ha assunto 119 lobbisti19 , provenienti dai principali studi specializzati di Washington e da aziende quali Google, Microsoft, Yahoo, Raytheon, Goldman Sachs, Wellpoint, AT& T, Verizon, Sprint, Monsanto.


Detentori di un potere inossidabile e opaco, gli agenti di pressione perseguono sottotraccia l’utile dei loro clienti grazie al lassismo delle leggi che ne dovrebbero regolare l’operato. Tanto che oggi la stragrande maggioranza agisce in maniera abusiva. In base al Lobbying Disclosure Act, la legge del 1995 che richiede ai professionisti di registrarsi presso la Camera dei rappresentanti e di rivelare clienti e onorario, è da ritenersi lobbista soltanto chi lavora almeno un giorno a settimana per i suoi committenti; guadagna più di 2.500 dollari nell’arco di tre mesi; intrattiene rapporti con più di un contatto politico. Analogamente è un’azienda di lobbying solo quella che assume professionisti registrati. Inoltre, prima di migrare nel settore privato un ex parlamentare deve attendere due anni. La palese ingenuità della legislazione e le modiche sanzioni comminate ai trasgressori (multe da poche migliaia di dollari) inducono gli operatori a muoversi nell’oscurità, così da sfuggire ai controlli e allo scrutinio dell’opinione pubblica. Per questo ufficialmente il numero dei professionisti e gli introiti delle società del settore continuano a diminuire. Stando ai dati della Camera, nel 2014 le società specializzate avrebbero sborsato 3,2 miliardi di dollari, una cifra in costante diminuzione dal 2008, e i lobbisti attivi sarebbero appena 11.781, il dato più basso dal 200120. Ma se si calcola il cosiddetto outside lobbying, l’attività condotta dai professionisti informali, la spesa del settore si aggira intorno ai 9 miliardi di dollari e Washington è invasa da oltre centomila tra lobbisti e società invisibili. Tra i cosiddetti agenti stealth ci sono nomi molto influenti. Come Chris Dodd, che, conclusa nel 2011 la sua carriera di senatore per lo Stato del Connecticut, appena dieci settimane più tardi è divenuto presidente della Motion Picture Association of America, la potentissima lobby di Hollywood. O come Tim Pawlenty che dal 2013 partecipa attivamente ai lavori della commissione Finanza della Camera, benché sia ufficialmente un semplice consulente bancario al soldo di un gruppo privato. O come Tom Daschle, già capogruppo dei democratici al Senato, che ha deciso di registrarsi come lobbista solo nel 2015, dopo undici anni di onorata carriera nel ruolo di intermediario tra la corporate America e i palazzi della politica. Così nel gergo di Washington il Lobbying Disclosure Act è per tutti la scappatoia Daschle (Daschle loophole). Peraltro l’esodo di burocrati e congressisti verso le società di pressione sembra destinato a ingrossarsi ulteriormente: dal 1979 lo staff parlamentare è diminuito del 20%, accrescendo ancor di più l’utilità degli esterni, e solo nell’ultima legislatura sono diventati lobbisti due terzi dei congressisti che hanno lasciato il Campidoglio. Ad attirarli sono i compensi elevatissimi, la minore pressione mediatica e lo straordinario potere di cui possono disporre. Negli anni celebri lobbisti sono divenuti protagonisti assoluti della vita politica. Specialmente John Podesta, fondatore dell’omonima società di lobbying , in passato collaboratore proprio di Tom Daschle, capo di gabinetto con Bill Clinton, consigliere speciale con Obama e ora responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton in vista del 2016.

I leader sono inefficaci e poco amati, ma gli americani restano fedeli all’idea onirica della nazione, al mito della città sulla collina. L’accesso alla politica è interdetto da barriere classiste e dinastiche, ma i cittadini credono nella loro eccezionalità, attestata dallo status riconosciuto al paese a livello internazionale. Finché l’America conserverà il primato globale, resisterà anche il suo modello civile. I padri fondatori ne erano consapevoli. Già nel 1783 George Washington definì gli Stati Uniti un impero necessariamente in ascesa (a rising empire22, tracciando la traiettoria di una nazione che avrebbe dovuto puntare allo zenit per legittimare se stessa. E fare a meno della politica.

Analizzando, anno per anno, dal 2009 al 2019, tutti i report trimestrali riguardanti
l’azienda presa in considerazione, è stata riscontrata una maggiore somma investita in
alcune issues e leggi specifiche.
Le issues più prese in considerazione sono state:

  • CPI, con un investimento di $ 10.133.501;
  • TAX, con un investimento di $ 9.749.995;
  • TEC, con un investimento di $ 5.679.909;
  • CPT, con un investimento di $ 5.619.571.
    Le leggi, invece, maggiormente interessanti sono state:
  • Cyber Privacy Fortification Act con $ 748.322;
  • Open Government Data Act con $ 586.312 ;
  • MarketPlace Fairness Act con $ 481.440 ;
  • Transportation Housing and Urban Development and Related Agencies
    Appropriations Act con $ 404.872.

COME FUNZIONA LA LOBBY SIONISTA NEGLI STATI UNITI

L’importanza della comunità israelitica in America non consiste nel peso elettorale e, a sorpresa, nemmeno in quello finanziario. In realtà i gruppi di pressione hanno successo perché i loro obiettivi convergono in buona parte con quelli dell’establishment.

PER CAPIRE IL PROBLEMA, PERMETTETEMI di semplificarlo. Gli Stati Uniti sono una plutocrazia in un senso molto preciso: l’acquisizione di potere nella politica americana ha bisogno del pagamento di enormi somme di denaro. Nessuno viene eletto a una carica senza sostanziali investimenti che, per le campagne elettorali degli oltre seicento deputati e dei cento senatori, arrivano alla cifra di centinaia di milioni a testa. Durante e dopo le campagne per eleggere i membri del Congresso, pagamenti, sia legali che illegali, vengono raccolti e consegnati nella forma di «contributi alla campagna» e in forme più indirette per tutto il tempo in cui il politico rimane nella sua carica legislativa o esecutiva.

Il denaro per la politica viene ottenuto in due modi. Nel primo caso, arriva direttamente da individui ricchi, vicini a uno dei due partiti, oppure da coloro i cui interessi d’affari – o i cui interessi politici, come nel caso dei sionisti – hanno qualcosa da guadagnare dall’elezione di un particolare uomo politico. Nel secondo caso, il denaro giunge da potenti banche d’affari (business corporation banks), cartelli del petrolio e così via, oppure da enti morali che, nella maggior parte dei casi, organizzano delle lobby o gruppi di pressione per influenzare le due entità legislative (Congresso e Senato) e l’esecutivo (la Casa Bianca e i membri del governo).

La lobby sionista lavora, come vedremo, attraverso ambedue i canali.

Lo stesso sistema di finanziamento opera a livelli inferiori – quelli delle assemblee legislative dei cinquanta Stati dell’Unione; e anche al livello degli esecutivi statali, cioè dei governatori e del loro governo. Un terzo, ma importante livello è quello delle città, dei loro sindaci e funzionari comunali.

A ogni livello, le lobby sono al lavoro, impegnate nel loro compito principale di ottenere vantaggi per i propri clienti e distribuire denaro, direttamente e indirettamente, agli americani eletti ai pubblici uffici, siano essi ebrei o non-ebrei. Le lobby incanalano le donazioni delle aziende e anche parte dei contributi individuali che, comunque, sono spesso consegnati direttamente, di mano in mano.

Il presidente in carica, Bill Clinton, fa parte del Partito democratico. Per la prima volta in molti decenni, l’opposizione, cioè il Partito repubblicano, controlla entrambe le assemblee legislative. I repubblicani controllano anche la maggioranza degli Stati. Ciò significa che i lobbisti devono ora spendere più denaro e bilanciare i pagamenti a democratici e repubblicani.

Tra le migliaia di grandi e piccole lobby, cinque predominano in modo netto: l’industria pesante aeronautica e degli armamenti che coordina la propria attività col Pentagono; l’industria petrolifera, collegata a un settore bancario internazionale; gli agricoltori; la National Rifle Association, che rappresenta i produttori e gli amatori delle armi leggere, usate a fini di difesa o per la caccia; la lobby sionistaebraica. C’è un sesto concorrente, che segue a poca distanza gli altri e forse è il più importante di tutti: la lobby delle banche americane. Però questa lobby, per i suoi legami continui con la Federal Reserve, non ha necessità di un’attività lobbistica giornaliera e lavora sull’economia attraverso la Federal Reserve e tramite la pressione bancaria di Wall Street.


Miliardi che tornano in America

La lobby, anzi le lobby ebraiche, sono sioniste. Devono essere così: gli ebrei in quanto tali non sono una delle fonti di entrate principali per pubblici funzionari e legislatori, ad eccezione di città come Los Angeles e, soprattutto, New York. In passato, si sarebbe potuta aggiungere a questa breve lista anche Miami, in Florida, ma in questo Stato meridionale i cubani, altri latino-americani e anche la mafia hanno rimpiazzato l’anziano contingente ebraico della popolazione locale.

La principale fonte finanziaria della lobby deriva, un po’ paradossalmente, dal fatto che gli Stati Uniti assicurano un sostegno economico estremamente importante a Israele, sia in aiuti militari che in fondi per lo sviluppo. Questo denaro ritorna, per la maggior parte, negli Stati Uniti sotto forma di pagamenti israeliani all’industria pesante aeronautica e d’armamenti e ad altre aziende di consulenza e industriali, e anche nella forma di remunerazioni ai propri alleati nel Pentagono e nelle altre agenzie governative.

In altre parole, la lobby sionista ha successo soprattutto perché riceve risorse dal complesso militare-industriale e dai suoi alleati tra politici, deputati e senatori; ma non perché gli ebrei aiutano a eleggere i politici (eccetto che a New York, Los Angeles e qualche altra località minore).

Il mito di una pressione elettorale ebraica di origine esclusivamente americana può essere chiaramente demolito dai fatti: nel Nord-America ci sono tra i quattro e i cinque milioni di ebrei; meno della metà nutre interesse per le questioni relative alla propria appartenenza, mentre i restanti sono stati assimilati nella maggioranza non-ebraica del paese. Questi dati vanno confrontati con quelli dell’ultimo censimento ufficiale che ha registrato un totale di 263 milioni di americani.

Inoltre, solo il 30% di tutti gli americani che si registrano come elettori si sono presi la briga di partecipare alle ultime elezioni presidenziali. È quindi chiaro che il voto ebraico a livello nazionale non ha forza sufficiente per decidere i risultati.

D’altra parte, circa 16 miliardi e mezzo di dollari sono concessi ogni anno a Israele dall’amministrazione e da enti collegati al governo, in forme dirette e indirette. Questi finanziamenti comprendono 3,1 miliardi per spese militari che, in grandissima parte, tornano ad aziende come la Lockheed e la Boeing.

Altri 1,2 miliardi vengono dati a Israele, ufficialmente per «obiettivi di sviluppo» e, ancora una volta, un gran numero di aziende americane sono coinvolte in queste transazioni.

Una somma non dichiarata, che si stima aver raggiunto tra i quattro e i cinque miliardi di dollari, è stata fornita segretamente dalla Cia e dalle altre agenzie di spionaggio americane per operazioni di destabilizzazione in Africa e nel Terzo Mondo, nel quadro della guerra fredda. In particolare l’Africa, e in misura minore l’America Latina, sono state regioni in cui Israele ha offerto una consulenza sul riciclaggio del denaro (il Panama di Noriega), la propria esperienza tecnologica (il monitoraggio computerizzato sui villaggi indiani in Guatemala, l’addestramento di servizi segreti alleati) e piani per corrompere i politici locali. Tutte queste attività venivano finanziate con fondi del governo statunitense, e i lavori garantivano sostanziosi profitti collaterali agli israeliani. I finanziamenti americani assicuravano alla Cia e ad altri settori della comunità di spionaggio americana entrature nella politica del Terzo Mondo che erano inibite agli Stati Uniti per ragioni di politica interna (ad esempio l’avversione della lobby dei neri americani per lo spionaggio in Africa). Ma, soprattutto, hanno permesso alla comunità dell’intelligence americana di gonfiare i propri bilanci e mostrare quanto fosse necessario finanziare agenzie così importanti per il destino della nazione.


L’Asia centrale prende il posto dell’Africa

Dal collasso dell’Unione Sovietica in poi, questi fondi non sono, come si potrebbe credere, stati tagliati, ma piuttosto sono stati rimpiazzati da finanziamenti relativi al disciolto impero sovietico, in particolare al Kazakhstan, l’Uzbekistan, il Tadžikistan, l’Azerbajdžan e altri paesi dell’Asia centrale ritenuti bersagli del fondamentalismo iranico-islamico. Oggi molto denaro viene speso per operazioni segrete contro l’Iran, il Sudan e i guerriglieri che combattono il governo turco.

Nello scorso agosto, dichiarazioni rilasciate dal nuovo direttore (ebreo) della Cia, John Deutch, e da altri dirigenti dell’Agenzia hanno preannunciato un aumento della «Humint» (Human intelligence, spionaggio basato su fonti umane, contrapposto a quello basato sulle macchine, n.d.r.) nella quale le agenzie israeliane eccellono sin dagli anni Cinquanta. Si dice infatti che sia stato un agente israeliano ad aver trasmesso a Tel Aviv, e da là sia giunto poi a Washington, il testo segreto del discorso di Chruščëv al XX Congresso del Partito comunista sovietico, nel quale venivano per la prima volta denunciati i crimini di Stalin.

E infine, è spuntata «l’industria della pace», cioè i finanziamenti resi necessari (e concessi dagli Stati Uniti) per sostenere il processo iniziato a Oslo, che Israele chiede vengano assegnati direttamente ai palestinesi (ma che transitano e sono collegati col sistema bancario e monetario israeliano) e indirettamente a Israele, attraverso speciali esenzioni sulle esportazioni israeliane negli Stati Uniti.

Una parte sostanziale di questi fondi viene riciclata non solo attraverso banche di proprietà o legate a Israele presenti negli Stati Uniti, ma anche da altre istituzioni bancarie americane, che rappresentano variegati interessi e settori finanziari. I «Finanziamenti Oslo» sono così diventati una parte sostanziale dei giochi di prestigio monetari dell’economia internazionale sotterranea, in buona parte controllata da Wall Street e dalla City di Londra.

In altre parole, il nuovo sostegno fornito a Israele aggiunge nuovi e importanti canali ai giochi speculativi internazionali che drenano fondi dalla parte creativa e costruttiva dell’economia mondiale e utilizzano l’inflazione e la svalutazione delle varie monete – dollaro compreso – per accumulare profitti «aridi», cioè non produttivi e antindustriali.

È superfluo aggiungere che i funzionari del Pentagono, del Dipartimento del Tesoro, della Cia e delle altre agenzie continuano le loro lucrose carriere nel settore civile, dopo essere andati in pensione con largo anticipo. Questi pubblici funzionari ottengono tre diversi profitti quando agevolano il fluire degli aiuti a Israele: da parte degli israeliani, dall’amministrazione e, più tardi, dalle ditte, industrie e banche americane.

Le cose sono arrivate al punto che un membro del Congresso ha osservato scherzando che sarebbe più economico fare di Israele il cinquantunesimo Stato della Federazione.


Il mito del controllo ebraico sulle banche

Riguardo un’altra nota questione, il mito del controllo ebraico sul sistema bancario americano, bisogna dissiparlo una volta per tutte. In realtà, la maggior parte del sistema creditizio statunitense è controllata dai wasp – americani bianchi e per lo più protestanti – e comprende: il cosiddetto «vecchio denaro» della costa orientale, cioè banchieri come i Rockfeller, e una miriade di minicartelli di capitali che hanno la loro radice nelle attività degli originari commercianti yankee e degli armatori del XIX secolo; i petrodollari conservatori del Texas e del Sud, e più recentemente il denaro industriale e dei servizi di comunicazione; i «nuovi» gruppi bancari prodotti dalla pura manipolazione monetaria (borsa valori e compravendita di merci), la cui influenza è cresciuta soprattutto negli ultimi vent’anni. Di questi quattro settori bancari, i primi tre sono legati alla produzione e distribuzione del petrolio, e quindi – in molti casi – agli Stati arabi del Golfo. Questi settori speculano sul dollaro (e sulle altre monete) più che investire nella produzione e nella manifattura. Costituiscono un settore economico che, fino a un certo punto, è in competizione con «l’altra» economia americana, raggruppata attorno ai produttori di armi pesanti, aerei e altri beni industriali minori funzionali per lo più al sempre forte complesso militare. È questo altro settore dell’economia che assicura il maggior numero di investimenti. A volte (come durante la guerra del Golfo) i due settori si uniscono per preservare energicamente i propri interessi.

Il punto dunque è che esistono attività bancarie ebraiche in America e in altri paesi, e che hanno anche una qualche importanza; ma questa rete, che divenne un fattore di dimensioni internazionali al tempo delle guerre napoleoniche, ha visto gradualmente diminuire il suo predominio sui mercati finanziari mondiali, perdendo gran parte del suo potere nel corso della seconda guerra mondiale. Fu durante quel conflitto che le ditte «cristiane» si impegnarono a soppiantare l’attività bancaria internazionale ebraica nelle borse valori, che furono rivitalizzate (dopo un periodo segnato dalla grande depressione degli anni Venti) dai programmi di prestiti alla Gran Bretagna e all’Unione Sovietica e, in seguito, dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. Questo periodo fu seguito dalla rinascita industriale americana e più tardi da un’ondata di costruzioni edilizie per i veterani e dal Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa. Tutte queste iniziative richiedevano denaro, molto denaro. Il settore bancario cristiano-americano divenne più grande e più potente.

Alla fine di questa evoluzione durata cinquant’anni, negli Stati Uniti e altrove (eccetto forse la City di Londra) i banchieri ebrei sono una (robusta) minoranza, guidata da iniziative e politiche di altri soggetti.

Ciò non significa che l’attività bancaria ebraica non giochi alcun ruolo manifesto o segreto: il banchiere israelo-ungherese Tibor Rosenbaum fu il creatore del braccio finanziario del Mossad, prima di servire la mafia ed essere infine incriminato per reati finanziari. Rosenbaum, la cui attività ruotava attorno a Ginevra, morì in circostanze abbastanza misteriose.

Ma non si può sostenere che i «banchieri ebrei» influenzino la società americana in modo determinante; e quando ciò momentaneamente accade (per esempio, quando il finanziere ebreo-cecoslovacco Robert Maxwell iniziò a scuotere la barca finanziaria speculando da solo sul dollaro e finendo col «commettere suicidio») la loro fine è rapida e drastica. Gli operatori ebrei che da soli si mettono contro il sistema non sopravvivono a lungo.

Con lo stesso ragionamento si potrebbe affermare che esistono anche i «banchieri cattolici» in America, ma essi operano solo in modo relativamente disciplinato all’interno del sistema d’affari e finanziario americano. In questo caso faccio riferimento non tanto alle documentatissime vicissitudini dell’impero economico della famiglia Kennedy, quanto all’impero dei Grace che venne usato dall’amministrazione Roosevelt, nel corso della seconda guerra mondiale, come un mezzo per contrastare l’appoggio del Vaticano al Terzo Reich. A questo fine, la famiglia Grace venne costretta ad attenuare in parte le proprie opinioni antiebraiche e antiamericane, assieme agli investimenti nella valle del Reno, dove lavoratori dei campi di concentramento erano impiegati da ditte come la IG Farben ed altre, nelle quali le partecipazioni britanniche e americane erano ancora consistenti.

Nel campo finanziario internazionale cattolico, dall’assassinio di John Kennedy al fallimento del Banco Ambrosiano, quando questi imperi volevano rendersi troppo indipendenti e non seguivano la linea monetaria internazionale decisa da forze più altolocate e potenti, non si è esitato a usare la violenza.


Strutture della lobby ebraica

La vita comunitaria degli ebrei americani è organizzata lungo tre assi fondamentali. Il primo sono le Federazioni ebraiche, che rappresentano servizi e gruppi locali, comprese sinagoghe, scuole, asili; si tratta di istituzioni culturali, economiche, religiose, ricreative e politiche presenti in ogni borgo, cittadina o città dove esiste una comunità ebraica. Il secondo asse è costituito dalle organizzazioni ebraiche «nazionali» e «internazionali», come l’American Jewish Committee, l’American Jewish Congress, le logge massoniche Bnei Brith con il loro mostruoso bambino, la Anti-Defamation League eccetera. Il terzo asse è formato dalle quattro maggiori organizzazioni religiose degli ebrei americani: conservatori, ortodossi, ebraismo riformato e rinnovatori; a queste vanno aggiunte almeno altre due nuove sette messianiche ebraiche: i sionisti seguaci di Lubavitch e la loro controparte antisionista all’interno del giudaismo ortodosso.

Come vedremo, tutte queste organizzazioni ebraico-americane, ad eccezione delle sette ortodosse antisioniste, operano come parte della lobby sionista. Un altro fattore da tener presente è che le loro attività e competenze si sovrappongono continuamente.

A questi tre grandi gruppi occorre aggiungere alcune organizzazioni politiche direttamente collegate a Israele: all’estrema destra, la Jewish Defense League fondata dall’ex rabbino Meir Kahane (in seguito assassinato), conosciuta per l’uso del terrore e il sostegno fornito all’estrema destra «neonazista» israeliana (Kahn, Eyyal, Spada di David ed anche Nostro Israele); e a sinistra, la meno influente organizzazione Peace Now, che appoggia il Meretz, la componente di sinistra dell’attuale governo guidato dal Partito laburista e che, quindi, ha un filo diretto con Gerusalemme.

Le Federazioni ebraiche sono le strutture di base, primarie della vita ebraica. Secondo un accordo con l’Agenzia ebraica (israeliana) e l’associazione sionista United Jewish Appeal, di ogni dollaro donato o pagato per le quote sociali da ogni ebreo americano alle organizzazioni affiliate alle Federazioni o ad altre organizzazioni ebraiche, trentatré centesimi vengono inviati in Israele attraverso la United Jewish Appeal. Questo è il motivo per cui è denominata «unita», anche se i vari partiti di Israele raccolgono fondi per conto proprio. Il principio di «un terzo ad Israele» produce due conseguenze. In primo luogo, il singolo donatore ebreo non ha alcun controllo su dove finirà il suo denaro. Gli ebrei che si opponevano all’invasione israeliana del Libano nel 1982 furono informati che potevano cessare di versare finanziamenti alle Federazioni, ma che poi avrebbero perso sia il diritto di essere membri dei gruppi locali sia la possibilità di favorire le iniziative umanitarie israeliane. In ogni caso, non avevano altra scelta che finanziare l’invasione israeliana del Libano, azione che ripugnava a molti.

In secondo luogo, le strutture direttive locali delle Federazioni ebraiche sono profondamente coinvolte negli affari pubblici israeliani, vengono invitate a visitare Israele, incontrare generali e ministri israeliani e, ad approvare i desideri del governo israeliano in carica. Ritornando ad esempio a Montgomery nell’Alabama o a Miami nella Florida, la leadership della comunità ebraica locale acquista molto prestigio da questi viaggi e contatti, ed è ancor più motivata a spendere per la causa sionista e a lottare contro chiunque si opponga a Israele. Tra parentesi, questi «nemici di Israele» tra i politici americani sono indicati nei riassunti fatti a voce, stampati su carta o inseriti nella rete Internet dai consoli, dagli addetti agli affari ebraici e dai diplomatici israeliani, nonché dagli inviati speciali dell’Agenzia ebraica provenienti da Israele e dai propagandisti sionisti locali.

Le Federazioni locali sono organizzate a livello statale e i Consigli delle Federazioni nazionali sono usati come strumenti di pressione diretta sui politici locali e statali, i governatori, i sindaci, i consiglieri, i membri delle assemblee legislative dello Stato e così via, ma anche sugli interessi economici locali, sia degli ebrei che dei gentili, a cui viene chiesto di contribuire alle campagne elettorali di candidati che riscuotono la preferenza della lobby sionista.


Le principali organizzazioni ebraiche

Le cosiddette organizzazioni ebraiche, strutturate in una Conferenza dei presidenti della maggiori organizzazioni, non sono così centrali come si potrebbe credere. Esse sono piuttosto delle emanazioni dei maggiori finanziatori e dei soggetti politici dell’ebraismo americano. Esse sono anche il prodotto, ora sorpassato, delle stratificazioni di immigrati e sociali della metà del secolo.

Così l’American Jewish Congress era prevalentemente animato da ebrei dell’Europa orientale; l’American Jewish Committee dai (piuttosto liberal) ebrei tedeschi; il World Jewish Congress dall’anziano dottor Nahoum Goldman, soprattutto come strumento per ottenere dalla Germania risarcimenti di guerra per gli ebrei di origine europea e per alcune particolari istituzioni israeliane ed ebraiche. Goldman non voleva che i risarcimenti agli ebrei che erano morti durante l’Olocausto senza lasciare eredi fossero consegnati in toto a organismi israeliani e quindi mise insieme ebrei americani ed europei, finanziandoli con le riparazioni tedesche attraverso l’associazione da lui fondata. I partiti sionisti in Israele – Partito laburista, Likud, Mafdal, Hashomer Hatzair – hanno anche loro le proprie strutture di riferimento tra le maggiori organizzazioni americane. Questi sodalizi sionisti americani venivano usati come canali per l’immigrazione volontaria e organizzata in Israele, ma oggi, essendosi l’emigrazione americana verso Israele ridotta a un rivolo composto per lo più da zelanti estremisti di destra, anche la struttura americana che fa riferimento al Likud funziona più come una lobby e una rappresentanza della destra israeliana – oltre che come strumento di raccolta di fondi – piuttosto che come una riserva di immigranti ebrei americani.

Una caratteristica delle megaorganizzazioni è che, per la gran parte, non sono elettive. I loro presidenti, i responsabili esecutivi e gli altri dirigenti sono «eletti» da un piccolo numero di individui, e nessuno al di fuori di questi circoli conosce realmente il numero degli iscritti di gruppi come l’American Jewish Congress o l’American Jewish Committee. Una cosa è chiara: che chiunque immette fondi decide la musica; e che molte di queste organizzazioni, in particolare il World Jewish Congress e l’American Jewish Committee, si sono spostate costantemente a destra negli ultimi vent’anni.

Il caso del World Jewish Congress è esemplare. Creato, come abbiamo visto, dal dottor Goldman con i fondi di risarcimento tedeschi, era un ente ebraico liberale, a volte anche orientato a sinistra (questo non lo rende più rappresentativo delle più conservatrici organizzazioni sorelle a cui è affiliato). Quando Goldman divenne troppo anziano per continuare la sua attività, il suo posto venne preso da un ex ministro americano, Philip Klutznik. Costui era l’uomo che aveva elaborato i progetti per la costruzione di case per i veterani della seconda guerra mondiale, diventando al contempo multimilionario. Ciò, tuttavia, non lo indusse a investire granché nello sviluppo del World Jewish Congress, sempre più moribondo.

La soluzione venne escogitata da alcuni funzionari dell’organizzazione, soprattutto dal rabbino ortodosso Israel Singer. Il World Jewish Congress fu offerto all’ebreo canadese miliardario Edgar Bronfman, il cui padre aveva fatto fortuna col contrabbando di alcolici al tempo del proibizionismo utilizzando la Seagram, la propria azienda. Si racconta che Bronfman, prima che gli fosse «venduta» l’organizzazione, avesse chiesto se si trattava di un’istituzione di beneficienza ebraica. Dopo aver preso la guida della struttura, come nuovo presidente «eletto» Bronfman provvide ad allineare l’organizzazione alla politica di Menahem Begin, leader del partito di destra Likud, che era diventato primo ministro nel 1977. Bronfman divenne anche amico del ministro della Difesa, Ariel Sharon, che in seguito avrebbe progettato e diretto la disastrosa invasione del Libano nel 1982. Oggi il World Jewish Congress è una delle organizzazioni più destrorse del panorama ebraico americano. Storie analoghe potrebbero essere raccontate riguardo anche ad altre organizzazioni «principali».

Queste finiscono per essere gli strumenti politici con cui vengono avvicinati i funzionari pubblici di alto e basso livello. I loro dirigenti parlano direttamente al Congresso e alla Casa Bianca, al sindaco di New York, al governatore della California e così via.

viamente, comprende la Chiesa cattolica degli Stati Uniti, che è su posizioni relativamente progressiste sul Terzo Mondo e sui diritti umani.

In generale, le Chiese in America, sia cattoliche che evangeliche, erano nettamente antisemite fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Tra i cattolici praticanti si trovavano i fondatori del movimento filonazista America First. Però, con la fine della guerra e la scoperta dei campi di sterminio nazisti, le Chiese americane, come le loro consorelle in Europa, divennero, in generale, filoebraiche. Il ritorno dei veterani americani dal fronte europeo rafforzò questa tendenza – un misto di pietà, sensi di colpa e repulsione. Tale sentimento venne rafforzato dalla lotta di indipendenza israeliana e dal ruolo negativo che l’impero britannico ebbe in quel conflitto. Le Chiese americane divennero, nell’insieme, filosioniste.

Ventotto anni di occupazione dei territori arabi hanno profondamente cambiato questo atteggiamento. «Non possiamo considerare gli ebrei, automaticamente, vittime o nel giusto», ha detto un alto prelato di New York. È quindi diventato necessario, per la lobby sionista, applicare la propria pressione. Dato che ciò non può essere fatto direttamente dalle organizzazioni politiche ebraiche o israeliane, le quattro congregazioni sono diventate il vettore della lobby favorevole a Israele nei confronti delle Chiese americane. Uno dei principali strumenti di questa pressione è stato, fin dal suo concepimento, il dialogo tra cristiani ed ebrei, in cui la rappresentanza della parte ebraica è stata assunta da elementi ebrei della destra radicale, come il rabbino Marc Tennenbaum.


Due casi particolari: Lubavitch e Kahane

La congregazione degli zeloti di Lubavitch, tradizionalmente parte dell’ebraismo ortodosso, è cresciuta fino a diventare una setta messianica mondiale che crede fermamente nel prossimo ritorno dalla morte del proprio defunto leader. Prima della sua morte, circa due anni fa, si diceva che il rabbino Lubavitch fosse immortale.

I membri di questa congregazione, molti dei quali vivono a Brooklyn, vengono identificati con l’estremismo nazionalista israeliano: essi credono che Dio stesso proibisca di cedere una qualsiasi parte della storica Eretz Israel conquistata dagli israeliani e ritengono, sebbene i suoi membri si rifiutino di prestare il servizio militare e ne siano esentati, che l’esercito israeliano compia il volere divino. Oltre a ciò, i seguaci di Lubavitch appoggiano i coloni zeloti che compiono a loro avviso un sacro dovere. Dato che tutti i membri della setta votano come un sol uomo, la loro influenza è grande in quelle aree degli Stati Uniti nelle quali sono presenti. I seguaci di Lubavitch, come diversi altri ebrei ortodossi-americani, sono estremamente razzisti e spesso si impegnano in conflitti con le comunità limitrofe nere, ispaniche o asiatiche, dai cui membri cercano di comprare le case, per creare blocchi omogenei sempre più grandi di seguaci della setta. Il sindaco di New York, ma anche il presidente degli Stati Uniti, hanno riconosciuto il potere politico di questa setta e una medaglia del Congresso è stata data alla memoria del rabbino Lubavitch. Mentre era in vita, il rabbino non solo era ricevuto da presidenti, ma erano i presidenti stessi ad andare a trovarlo per chiedere il suo appoggio.

I seguaci di Lubavitch sono ricchi e lavorano sodo. Sono una setta motivata e la loro influenza sta crescendo tra i ragazzi ebrei ortodossi in cerca di ideali. Sono una parte indipendente ma importante della lobby ebraica.

Per quanto riguarda la Jewish Defense League, fondata dal defunto rabbino Meir Kahane (che andò in Israele a costituire un partito «neonazista» poi messo al bando, denominato Kakh o «Così!», prima di essere assassinato a New York da un fondamentalista islamico egiziano), ha organizzato operazioni terroristiche da una parte all’altra degli Stati Uniti, compresa una bomba in un ufficio dell’Aeroflot che ha ucciso alcuni impiegati sovietici. La Jewish Defense League venne fondata come milizia contro i neri e oggi sostiene le frange più estremiste, e talvolta terroriste, dei coloni di Hebron e Gerusalemme. Negli Stati Uniti, organizza campi di addestramento paramilitari e minaccia individui e organizzazioni ebraiche di tendenze liberal.

Anche se la Jewish Defense League non è, in senso stretto, parte della lobby sionista americana, essa ha avuto contatti con molte organizzazioni dello spionaggio americano, compresa l’Fbi, per sventare le iniziative degli elementi antisemiti. A un certo punto, l’organizzazione ha infiltrato i gruppi neonazisti per conto dell’Fbi, ma poi è stata sconfessata dall’agenzia federale a causa degli atti di provocazione e di terrorismo a cui avevano partecipato gli infiltrati ebrei. Dopo la partenza di Kahane per Israele, la lega si è divisa in due gruppi. Entrambi appoggiano le frange neonaziste dei coloni più estremisti della West Bank, molti dei quali sono emigrati nelle colonie direttamente dagli Stati Uniti, col pieno appoggio della Agenzia ebraica controllata dal governo israeliano.

La crescente, anche se ancora limitata, influenza dei seguaci di Kahane tra gli ebrei americani deriva in parte da ragioni sociologiche. Per tre generazioni, molti ebrei sono giunti in America come immigrati della classe lavoratrice; la seconda generazione, quella del «mio figlio dottore», era liberal e sosteneva le lotte per l’eguaglianza dei diritti negli anni Cinquanta e le campagne contro la guerra del Vietnam negli anni Sessanta.

La terza generazione è invece, in generale, conservatrice e di destra. Al tempo stesso, i giovani ebrei non hanno trovato alcuna buona causa di sinistra o progressista, dato che oggi le università americane sono state in gran parte private dell’educazione e dell’attività politica. L’unica causa radicale con cui possono oggi identificarsi sono gli insediamenti e la conquista di Eretz Israel / Palestina. Gli unici con cui possono simpatizzare sono i loro fratelli che hanno scelto la propria Aliyà – viaggio verso l’alto – andando in Israele. In mancanza di educazione politica, sono vittime del proprio idealismo giovanile.

In America esiste una terza lobby estremista sionista. Non è per nulla ebraica, bensì composta da fondamentalisti evangelici, che in totale sono negli Stati Uniti circa sessanta milioni, i quali credono che Israele sia l’incarnazione delle profezie bibliche: la guerra in Medio Oriente viene considerata come conflitto tra Goga e Magoga (Bene e Male), che precede la fine del mondo e la seconda venuta, come profetizzato nel Nuovo Testamento.

I fondamentalisti evangelici spendono grandi somme di denaro in Israele, ma anche nel Libano meridionale dove hanno gestito per lungo tempo una radio filoisraeliana. Hanno creato un’«ambasciata cristiana» a Gerusalemme e sostengono i gruppi della destra politica israeliana, a partire dall’ala destra del Likud, guidata da Ariel Sharon. Questi, tra l’altro, è membro di alcune tra le più prestigiose e ultraconservatrici istituzioni di ricerca americane.


Conclusione: denaro e spaccatura

Secondo ricercatori ebrei americani antisionisti, circa un miliardo di dollari viene speso ogni anno dalla lobby ebraico-americana, ma anche direttamente da Israele, per finanziare personaggi del potere legislativo ed esecutivo in tutti gli Stati Uniti.

Ciò corrisponde quasi al centesimo alla media annuale dei finanziamenti raccolti in tutto il paese dall’United Jewish Appeal for Israel.

Qui, come nel campo dello spionaggio e in quello delle questioni militari, il sistema statunitense e quello israeliano sono in simbiosi totale. Il denaro per Israele, stanziato nei bilanci proposti dalle varie amministrazioni e approvato con risoluzioni dal Congresso, va bene per gli affari americani – e ritorna, in grandi fette, al sistema americano.

Questo denaro viene reinserito nella struttura politica americana attraverso una delle due grandi branche principali della lobby sionista: i Pac (Political Action Committee, comitati di azione politica) ebraici. In teoria un comitato potrebbe solo dare diecimila dollari per una sola volta a un singolo legislatore o uomo politico. Ma non c’è nulla nella legge che proibisca la costituzione di dieci o cento comitati a favore di un solo politico. Inoltre, non vi è alcuna norma che impedisca a un comitato di finanziare la moglie o i figli di un politico o di un legislatore. Infine, tra i beni offerti rientrano anche opportunità di lavoro, oppure «conferenze» tenute dai politici a organizzazioni ebraiche per cinque o diecimila dollari a discorso.

L’altra branca della lobby ebraica è formata da gruppi di propaganda come l’Aipac, il cui compito è di darsi da fare a favore di un candidato e contro un altro, a sostegno di una legge della Camera o del Senato oppure contro. L’Aipac e una legione di lobby meno conosciute sono riuscite, negli anni Ottanta, a battere figure prestigiose come quella del senatore Charles Percy, presidente della Commissione Esteri del Senato. In tempi più vicini a noi, nel Senato si è formata una maggioranza di 96 membri (su un totale di 100) automaticamente favorevole a qualsiasi cosa l’Aipac chieda di votare. Quest’anno, l’Aipac ha chiesto di approvare il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Questa era una delle principali richieste della destra ebraica e israeliana. Purtroppo, mentre l’Aipac aveva convinto il Senato ad approvare lo spostamento dell’ambasciata, il governo israeliano era impegnato a giustificare la decisione di annettere altre terre arabe attorno a Gerusalemme per colonizzarle. Rabin in persona ha chiesto ai membri più rappresentativi del Senato americano di non votare per questo trasferimento; ma la risoluzione è comunque passata.

L’incidente illustra l’obbedienza non-così-cieca dei politici americani all’Aipac e, su un piano più ampio, alla lobby ebraica, un’obbedienza generata dall’avidità personale e dagli interessi economico-politici.

Rabin, attraverso i suoi aiutanti più moderati, ha cercato di portare l’Aipac sotto il controllo del Partito laburista, ma per il momento questi tentativi sono stati infruttuosi. Su ogni questione pratica la lobby sionista è oggi divisa tra sostenitori e detrattori di Rabin, questi ultimi simpatizzanti del Likud. I lobbisti iperestremisti – seguaci di Kahane, ortodossi e altri ancora – continuano a sostenere con efficienza e dovizia di mezzi l’estrema destra israeliana, influenzando con le proprie azioni legislatori e politici americani, sia direttamente che attraverso le pressioni delle Chiese evangeliche estremiste, soprattutto nel Sud.

La vicenda dell’ambasciata americana illumina la spaccatura che si sta creando nella comunità degli ebrei americani e, di rimbalzo, nell’apparato della lobby. Mentre negli anni Settanta e Ottanta le organizzazioni ebraiche di destra chiedevano aspramente che nessun ebreo americano criticasse il governo di Begin e Shamir, le stesse organizzazioni hanno deciso oggi di fare lobbismo contro la politica del governo israeliano. Una lettera settimanale di Benyamin Nethanyahu, leader del Likud, viene mandata via fax direttamente agli uffici dei membri del Congresso e critica, con parole pesanti, il «tradimento» di Rabin e il processo di pace di Oslo. Lasciando da parte ciò che ognuno può legittimamente pensare della questione.

Inoltre, in aperta contraddizione con gli accordi dell’United Jewish Appeal, sia la Jewish Defense League che i coloni e il Likud hanno creato delle proprie lobby parallele, finanziano organizzazioni americane e, in alcuni casi come l’Aipac, si sono impadroniti delle lobby ebraiche tradizionalmente fedeli al governo israeliano in carica. Una spaccatura si è chiaramente evidenziata nell’apparato ebraico-americano che gestisce il potere di influenza tra ebrei simpatizzanti della destra e conservatori. Questa, nell’universo ebraico, rappresenta un turning point, i cui risultati finali non possono essere ancora previsti.

Di certo, in ogni caso, la lobby sionista continuerà ad esistere e operare con successo negli Stati Uniti, poiché è necessaria non solo ad Israele ma anche ad alcune potenti strutture di potere americane, così come a singoli legislatori. Dopo tutto, la lobby sionista non chiede nulla che il sistema americano non desideri – per i propri, «gentili» motivi.

Homeless

L’America ha un problema di senzatetto e quel problema sta solo crescendo.

Ciò è particolarmente vero per i senzatetto cronici, che sono aumentati del 65% negli Stati Uniti dal minimo del 2016. Anche i senzatetto senza tetto, più evidenti nelle grandi città, sono aumentati, mentre i tassi tra famiglie, bambini e veterani sono diminuiti.


In una sola notte del gennaio 2022, oltre mezzo milione di persone hanno avuto problemi di senzatetto negli Stati Uniti, secondo l’ Annual Homelessness Assessment Report , che informa le decisioni di finanziamento per il Dipartimento degli alloggi e dello sviluppo urbano degli Stati Uniti. Il rapporto si basa su volontari che ogni anno a gennaio sondano manualmente le comunità per esaminare le popolazioni senzatetto.

Il rapporto rileva che circa il 30% dei senzatetto americani lo scorso anno soffriva di senzatetto cronico, mentre il 40% dei senzatetto non aveva un riparo, il che significava che dormivano in tende, per strada o in auto piuttosto che in un rifugio. Le città, specialmente quelle con climi più miti, hanno tassi più elevati di senzatetto senza tetto rispetto alle aree urbane e rurali più piccole.


LEGGI: ​​Stati con il maggior numero di senzatetto ]

La causa principale dei senzatetto in America è la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, secondo la Conferenza dei sindaci degli Stati Uniti . Mentre molti attribuiscono i senzatetto a problemi di salute mentale o abuso di sostanze, è stato dimostrato che i costi degli alloggi hanno una correlazione più forte con il tasso di senzatetto di una città rispetto alla povertà, all’uso di sostanze e ai disturbi mentali o comportamentali.

I senzatetto sono costosi. Questo è vero sia per le persone che lo sperimentano sia per le organizzazioni che lo combattono . La carenza di alloggi a prezzi accessibili nei centri urbani, insieme agli alti tassi di inflazione, hanno spinto molti a lasciare le loro case. Negli ultimi due anni, le restrizioni dovute al COVID-19 hanno ridotto le capacità di accoglienza e l’accesso ai programmi di assistenza sociale. Nel frattempo, poco più del 20% degli aventi diritto all’assistenza abitativa lo riceve effettivamente , a causa di barriere come le lunghe liste di attesa e il trattamento preferenziale per le famiglie lavoratrici e gli anziani.

Le persone di colore , le persone con storie di incarcerazione e coloro che sono stati coinvolti nel sistema di affidamento hanno tutte maggiori probabilità di sperimentare i senzatetto rispetto ad altri gruppi, sebbene le popolazioni di senzatetto varino ampiamente a seconda dello stato e della città.


Molte delle città con i più alti tassi di senzatetto non mostrano segni di miglioramento: solo 10 avevano una popolazione di senzatetto più piccola nel 2022 rispetto al 2020. Sei delle prime 10 città si trovano in California, con diverse anche in Texas nell’elenco .

Ecco le prime 25 principali città degli Stati Uniti con la più grande popolazione di senzatetto, come misurato dall’Annual Homelessness Assessment Report.

Città con più di 10,000 Senzatetto

In 2017 c’erano approssimativamente persone senza fissa dimora 76,500, incluse le famiglie senza casa 15,000. Le famiglie rappresentano la più grande popolazione di senzatetto della città. Il senzatetto di New York ha raggiunto il livello più alto dalla grande depressione. La principale causa di senzatetto in città è la mancanza di alloggi a prezzi accessibili. La città e la contea di Los Angeles hanno registrato una popolazione di senzatetto di 55,188. I numeri sono aumentati da circa 32,000 sei anni fa. Nonostante il boom economico di Los Angeles, il costo degli alloggi ha continuato ad aumentare, con la maggior parte della popolazione disoccupata e a basso reddito incapace di permettersi l’alloggio. La popolazione senzatetto di King County è la terza più grande negli Stati Uniti. La contea di Seattle / King ha registrato la presenza di persone 11,643 nelle tende, nelle strade locali o nei veicoli.

Hai visto le file di tende affollate che fiancheggiano le nostre strade di Los Angeles. Hai visto i volti e la disperazione di uomini, donne e bambini rannicchiati insieme, che vivono per strada. Hai visto la fragilità di queste persone perché la loro fragilità è visibile a tutti.

Ma quanto ne sai della crisi dei senzatetto? Questi 5 fatti aiutano a illustrare la travolgente tragedia dei senzatetto a Los Angeles.

1. I numeri sono in aumento ed è una crisi che non può essere ignorata

In tutta Los Angeles, la crisi dei senzatetto sta raggiungendo proporzioni epiche. Ci sono oltre 58.000 persone in tutta la contea di Los Angeles che soffrono di senzatetto, con un aumento del 12% rispetto al 2018.

2. Sempre più persone diventano senzatetto per la prima volta

Tra l’aumento dei costi delle case e gli stipendi che non riescono a tenere il passo con l’alto costo della vita, sempre più persone cadono nella condizione di senzatetto per la prima volta. Vedete, 6 persone su 10 che soffrono di senzatetto ora sono senza alloggio per la prima volta , molti citano le difficoltà economiche come un fattore significativo.

3. I senzatetto rimangono visibili nelle nostre strade

Quando ti guardi intorno a Skid Row e nella grande Los Angeles, vedi innumerevoli persone che vivono in tende, rifugi di fortuna e i loro veicoli. La dura verità è che il 75% delle persone che soffrono di senzatetto non ha un riparo permanente e deve accontentarsi di tutto ciò che riesce a trovare.


4. I senzatetto cronici sono un problema a lungo termine

Per molti dei nostri amici e vicini vulnerabili che soffrono di senzatetto, la speranza di una vita migliore può essere difficile da afferrare. Ma per quelli con condizioni invalidanti come il diabete, l’Alzheimer e altre disabilità fisiche, molti affrontano lunghi o ripetuti episodi di senzatetto. In realtà, oltre 16.000 persone sono senza alloggio da più di un anno e presentano una condizione che rende ancora più difficile l’essere senza fissa dimora.

5. Stanno fuggendo da violenze e aggressioni

Ogni persona che vive senzatetto ha una storia e una ragione per cui si è rivolta alle strade. Purtroppo, la violenza domestica può essere un fattore significativo. In effetti, il 5% riferisce di essere stato costretto a diventare un senzatetto perché fugge dalla violenza domestica e non ha nessun altro a cui rivolgersi.

Alla missione di Los Angeles, lavoriamo per fornire servizi di emergenza e soluzioni a lungo termine per aiutare i nostri vicini a spezzare il ciclo dei senzatetto e riscrivere il prossimo capitolo della loro vita.

Mentre i senzatetto rimangono una crisi a Los Angeles, c’è speranza per un domani migliore se lavoriamo tutti insieme per creare il cambiamento.



N. York 2023






Fonti e approfondimenti:

Wealth inequality in Americahttps://www.youtube.com/watch?v=QPKKQnijnsM

The Washington Post, The Richest 1 Percent Now Owns More of the Country’s Wealth than at any Time in the Past 50 Years, 6 Dicembre 2017https://www.washingtonpost.com/news/wonk/wp/2017/12/06/the-richest-1-percent-now-owns-more-of-the-countrys-wealth-than-at-any-time-in-the-past-50-years/?noredirect=on&utm_term=.a2d0f0ba760a

CNBC, US income inequality continues to grow, 19 Luglio 2018, https://www.cnbc.com/2018/07/19/income-inequality-continues-to-grow-in-the-united-states.html

Forbes, The Racial Wealth Gap: Addressing America’s Most Pressing Epidemic, 18 Febbraio 2018https://www.forbes.com/sites/brianthompson1/2018/02/18/the-racial-wealth-gap-addressing-americas-most-pressing-epidemic/#4462e18d7a48

The Guardian, Trump’s ‘cruel’ measures pushing US inequality to dangerous level, UN warns, 1 Giugno 2018https://www.theguardian.com/us-news/2018/jun/01/us-inequality-donald-trump-cruel-measures-un


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I Kennedy,
Anche se quando non si trovano soluzioni si ricorre al Complottismo, Ci sono comunque alcune storire che Intrigano.

Stiamo Parlando di John Fitzgerald Kennedy Jr. – morto nel 1999 . Circola una teoria Bizzarra. la secondo cui JFK Jr. – il figlio minore di JFK – sia segretamente in vita e abbia fondato il movimento di QAnon. C’è molta gente che ci crede, e da giorni decine e decine di seguaci sono a Dallas in attesa della sua venuta. Il Grande Ritorno era fissato per il 2 novembre 2021 alle 12:29, nel punto esatto in cui tutto è partito: Dealey Plaza, Dallas. Ma i seguaci di Qanon , malgrado l’attesa restano delusi. Di fronte a una cosa del genere, anche gli esperti sono sbigottiti. Il ricercatore Jared Holt del Digital Forensic Research Lab spiega di essere “piuttosto sconvolto dal numero di persone che sta partecipando all’evento”, perché il ritorno di JFK Jr. “non è una credenza molto diffusa, nemmeno tra i seguaci di QAnon”.


A decenni di distanza dalla sua morte, tuttavia, una corrente di QAnon è fermamente convinta che JFK Jr. sia segretamente in vita.

La teoria è nata intorno alla prima metà 2018, e la sua genesi è stata ricostruita molto bene su Patreon dall’utente Dappergander (che è una formidabile risorsa per comprendere il movimento). All’epoca Q aveva iniziato a rilasciare i suoi drop con meno frequenza, e questi vuoti erano stati colmati da altri LARPer su 8chan.

Il 23 giugno, un utente che si firmava “R” aveva fatto un lungo post sulla imageboard gestita dai Watkins (di loro ne ho parlato qui), sostenendo di essere JFK Jr. e di aver fondato lui QAnon. Inizialmente Q non ci aveva fatto caso, ma dopo appena un mese si è visto costretto a intervenire pubblicamente per ben due volte: la prima a luglio, in cui ribadiva che “esiste solo un Q”; e la seconda a dicembre, per dire che JFK Jr. non è vivo.

Se consideriamo QAnon come una “iper-religione”, infatti, possiamo parlare di una specie di scisma. Il canone ufficiale (cioè Q) non riconosce una teoria, ma quella continua a essere ritenuta attendibile da molte persone che fanno parte del culto. Non a caso, la teoria di JFR Jr. – a forza di dettagli e variazioni – ormai vive di vita propria.


Provo a ricapitolarla brevemente: negli anni Ottanta JFK Jr. aveva iniziato a lavorare con i “Cappelli Bianchi” (White Hats, che nel gergo di QAnon sono i “patrioti” che combattono la cricca di pedofili satanisti) per sconfiggere il Deep State e vendicare la morte del padre.

Per non compromettersi troppo JFK Jr. aveva lanciato George, che non era un semplice magazine di politica e lifestyle, ma un veicolo di informazioni in codice – un po’ come 4chan, 8chan e 8kun. Donald Trump era stato messo a conoscenza dei piani del Deep State direttamente da JFK Jr. in persona.

Nel 1998 il senatore democratico Patrick Moynihan si era dimesso, e JFK Jr. aveva deciso di candidarsi per il Senato (cosa mai avvenuta nella realtà). Hillary Clinton, esponente di spicco della cricca, si era messa di traverso e aveva ordinato l’uccisione di Kennedy.

Ma ecco il colpo di scena: JFK Jr. sapeva che Clinton voleva farlo fuori, e ha inscenato la propria morte in un incidente aereo. Da allora lavora nell’ombra – tipo Obi Wan Kenobi – e aspetta il momento giusto per tornare al fianco di Donald Trump e innescare il “Grande Risveglio”.

Il problema è che questo momento si sarebbe dovuto avverare parecchio tempo fa.

Una teoria all’interno della teoria sostiene che JFK Jr. sarebbe dovuto essere il vicepresidente di Trump al posto di Mike Pence, ma sappiamo che non è andata così. Un’altra teoria aveva profetizzato il suo ritorno per il 4 luglio del 2020, il giorno dell’indipendenza. Altre ancora dicono che JFR Jr. è già tornato e si spaccia per un tale Vincent Fusca, un ex venditore di Pittsburgh.


Meglio morto che vivo
Dal momento che QAnon è teoria che ingloba qualsiasi teoria del complotto, quelle sull’omicidio di JFK hanno fatto parte dell’architrave narrativa di Q e dei suoi seguaci fin dall’inizio.

Le fazioni del movimento hanno incorporato in vari modi la morte di JFK nella loro, chiamiamola così, “versione” della storia; in più, JFK Jr. è sempre stato visto come uno dei golden boy della più famosa dinastia politica statunitense.

I seguaci di QAnon di una certa età, scrive Dappergander, hanno inoltre impressa nella mente l’immagine di John John che rivolge un saluto militare al feretro del padre. Insomma: la teoria su JFK Jr. unisce il passato con il presente, e traghetta le teorie sul padre nella modernità – usando a tale scopo il figlio.

Alla base di QAnon c’è sempre una grande battaglia tra il Bene e il Male, e il Bene ha ovviamente bisogno di eroi.

Tuttavia, oltre a Trump, il movimento ha sempre faticato a trovare eroi affidabili in vita; persino l’ex generale Michael Flynn è stato accusato di essere un adoratore di Satana, per dire.

JFK Jr., invece, è perfetto. Di lui sono disponibili moltissime foto, articoli e testi su cui ricamare sopra, senza che il diretto interessato possa dire alcunché.

In altre parole, non importa se a Dallas non tornerà mai: è molto più utile da morto che da vivo.

PROLOGO

DITTATURA AUTORITARIA (JFK era ben consapevole di Bohemian Grove e delle organizzazioni dell’agenda mondiale che stavano per asservire un mondo in un unico governo)

_Quando JFK fu assassinato>> LE FORZE SPECIALI DELL’ESERCITO AMERICANO BERETTI VERDI ATTIVArono PROTOCOLLI MILITARI e i loro CANALI di intelligence aprirono le > OPERAZIONI MILITARI DELL’ALLEANZA MONDIALE (questo dovrebbe farti capire perché la squadra di sicurezza del figlio JFK JFKjr si chiamava Q. e JFKjr aveva Intel dalle Forze Speciali e PROTEZIONE…… Ecco perché l’incidente aereo di JFKjr è avvolto nel mistero e la sua famiglia ha fatto accelerare la sua autopsia e poche ore dopo ha rapidamente sepolto il corpo (falso) /////


LA TEMPESTA


Q è un’operazione di intelligence militare degli Stati Uniti
_Q non è una singola persona, ma una squadra di persone di alto rango con nulla osta di sicurezza di livello “Q”, che eseguono operazioni pianificate da molti anni (il piano). Alcuni degli obiettivi sono: A) Un massiccio programma di diffusione delle informazioni inteso a 1) esporre la massiccia corruzione e cospirazione globale alla gente. 2) Indurre le persone a ricercare ulteriormente per aiutare ulteriormente nel loro “grande risveglio”. B) Sradicare la corruzione, la frode e le violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. C) Riportare la Repubblica degli Stati Uniti allo stato di diritto costituzionale e riportare anche “il popolo” in tutto il mondo al proprio governo. In breve, l’operazione Q è il più grande evento criminale e anti-tradimento/sedizione nella storia del mondo.


Trump non è stato eletto. È stato messo. RFKjr riceve>Intel<su vax da oltre 30 anni ed è stato inserito per un motivo///
Diversi attori sono stati collocati, [INFILTRAZIONE]
nei Dipartimenti CHIAVE. Agenzie .Corporazioni.
Non tutti i CAPPELLI BIANCHI sono amici nelle specifiche pubbliche

ILI>]; Qualcuno sta pianificando la scomparsa di Biden?

La CIA sta pianificando il secondo assassinio di un altro presidente degli Stati Uniti in carica dopo JFK?
_all’interno di questo piano che era stato previsto nel 2021 su questo canale e su pochi canali di verità si affermava che Biden sarebbe stato [X] e la comunità Patriot o Republican Mil. I comandanti sarebbero stati incolpati per la sua scomparsa (EVENTO IMPORTANTE FALSE FLAG CIA [DS])

Qualunque cosa stia succedendo, i FILI della morte di Joe Bidens nel 2023_24 stanno attraversando i CAVI<

_Mentre entriamo nella Tempesta del secolo e la NUOVA PANDEMIA È IL CAMBIAMENTO CLIMATICO e l’incendio di Forrest e ne consegue il Caos…>> L’ALLEANZA dei cappelli bianchi ha posizionato RFKJR all’interno di una posizione strumentale come candidato alla Presidenza e allo stesso tempo RFKJR è RED PILLING THE MASSES e si schiera pubblicamente contro il NUOVO ORDINE MONDIALE e condanna il gruppo DAVOS e la loro WORLD CARBON TAX SCAM, …RFKJR RED PILLS i democratici con la sua insistenza sui biolaboratori in Ucraina e la CIA che crea armi biologiche
_E ora RFKJR incolpa pubblicamente FOXnews e MSM per aver spinto i vaccini mortali e gli effetti.

Nell’autunno 2021 ti ho detto di tenere gli occhi su RFKJR >>> suo zio JFK ha creato le prime forze speciali per due motivi.

Diversi attori sono stati collocati, [INFILTRAZIONE]
nei Dipartimenti CHIAVE. Agenzie .Corporazioni.
Non tutti i CAPPELLI BIANCHI sono amici nelle specifiche pubbliche

Combattere la guerriglia comunista nella guerra non convenzionale

Bosnia Documenti Segreti

La scorsa settimana ricorreva l’anniversario dell’intervento Nato nell’ex Jugoslavia (24 marzo 1999), che si può considerare il primo passo di quella guerra mondiale fatta a pezzi denunciata da tempo da papa Francesco, che ora ha il suo focus in Ucraina.

Tante le motivazioni di quell’intervento, ad esempio quella di rilanciare l’immagine della presidenza Clinton, appannata dallo scandalo Lewinsky. Ma il proposito di dar vita a un’intervento Nato nella ex Jugoslavia partiva da lontano, come anche l’idea di colpire la Serbia.

Ultimo residuo dell’ex impero sovietico conficcato nel cuore dell’Occidente, la Serbia era per la Nato una sfida che doveva essere affrontata. Il redde rationem contro Belgrado ha i suoi prodromi nella guerra bosniaca, nella quale, tra il 1992 e il 1995, si confrontarono gli eserciti croati, serbi e bosniaci e che si concluse con l’accordo di Dayton.

Una guerra che, secondo la narrativa ufficiale, era riconducibile all’intenzione di Belgrado di dar vita a una “Grande Serbia”, annettendo parte della Bosnia (la stessa motivazione avrebbe innescato nel ’99 l’intervento Nato, asserendo che la Serbia voleva annettere il Kosovo).

Kit Klaremberg e Tom Seker hanno avuto accesso ai documenti segreti delle forze di pace canadesi presenti in Bosnia nei primi anni ’90, le UNPROFOR, rivelando la faccia nascosta di quel conflitto.

Felipe González, Bill Clinton, Jacques Chirac, Helmut Kohl, John Major e Viktor Chernomyrdin osservano la firma dell’accordo di Dayton da parte di Slobodan Miloševic (Serbia), Franjo Tucman (Croazia) e Alija Izetbegovic (Bosnia Erzegovina).

Quando gli Usa sabotarono la pace

“È un fatto poco noto – scrivono i due cronisti su ZeroHedge – ma alquanto riconosciuto che gli Stati Uniti hanno gettato le basi per la guerra in Bosnia, sabotando l’accordo di pace negoziato dalla Comunità Europea all’inizio del 1992 [Accordo di Lisbona, artefici Lord Carrington e José Cutileiro ndr]”.

“In base all’accordo, la Bosnia sarebbe diventata una confederazione composta da tre regioni autonome divise lungo linee etniche”. Non era perfetto, scrivono i cronisti, ma le parti avrebbero ottenuto quanto poi più o meno stabilito a Dayton e avrebbe evitato la guerra.

“Ma, il 28 marzo 1992, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Jugoslavia Warren Zimmerman incontrò il presidente bosniaco musulmano Alija Izetbegovic per offrire al suo Paese il riconoscimento di Washington come stato indipendente. E promettendo un supporto incondizionato nell’inevitabile guerra successiva, se avesse respinto la proposta della Comunità europea. Alcune ore dopo, Izetbegovic si avviò verso un sentiero di guerra” (Doug Bandow, sul National Interest, aveva già denunciata tale nefasta ingerenza, riportando anche le accuse in tal senso dello stesso Cutileiro).

Tanti analisti spiegano l’ingerenza Usa come un modo per contrastare un piano di pace che avrebbe reso più forte l’Europa grazie al ruolo di mediazione. Ma “i cablogrammi UNPROFOR rivelano che c’era al lavoro un’agenda molto più oscura. Washington voleva che la Jugoslavia fosse ridotta in macerie e progettava di mettere in ginocchio i serbi prolungando la guerra il più a lungo possibile“.

Secondo la versione ufficiale a far saltare l’Accordo di Lisbona furono i serbi, ma “i documenti dell’UNPROFOR chiariscono più volte che non è andata così”, dal momento che l’ostacolo “insormontabile” per gli accordi di pace furono le richieste degli “islamici” (così venivano identificati nei cablo i bosniaci guidati da Izetbegovic).

Altri passaggi dei documenti, poi, rivelano come “le interferenze esterne nel processo di pace” “non hanno aiutato la situazione” e “nessun accordo di pace” può essere raggiunto “se le parti esterne continuano a incoraggiare gli islamici a essere esigenti e inflessibili”. I cronisti chiariscono che tali interferenze venivano da Washington.

“Incoraggiare Izetbegovic a resistere a ulteriori concessioni” e “il chiaro desiderio degli Stati Uniti di revocare l’embargo sulle armi nei confronti dei musulmani [bosniaci ndr] e di bombardare i serbi costituiscono dei seri ostacoli per la fine dei combattimenti”, registrano le forze di pace canadesi il 7 settembre 1993.

Il giorno successivo, le forze canadesi riferiscono che “i serbi sono stati i più conformi al cessate il fuoco”. Mentre Izetbegovic  basava la sua posizione negoziale sulla “‘immagine largamente diffusa dei serbi bosniaci come cattivi“. Consolidare tale falsità ha avuto come esito quello di innescare “gli attacchi aerei della NATO sui territori serbi“.

Così su un cablogramma della UNPROFOR: “Non ci saranno colloqui seri a Ginevra finché Izetbegovic crederà che i serbi subiranno attacchi aerei [Nato ndr]. I raid aerei rafforzeranno notevolmente la sua posizione e probabilmente lo renderanno meno collaborativo nei negoziati”.

La Jihad della Nato

Allo stesso tempo, i combattenti islamici “non stavano dando una possibilità ai colloqui di pace”, portando attacchi a tutto campo e “aiutando  Izetbegovic nel raggiungere il suo obiettivo”, annotano i cronisti di ZeroHedege, infatti, per tutto il ’93, le milizie islamiche hanno condotto “innumerevoli incursioni in territorio serbo in tutta la Bosnia, in violazione del cessate il fuoco”.

I cablogrammi dell’UNPROFOR illustrano ampiamente tali azioni, e come gli attacchi serbi, denunciati come attacchi proditori e in violazione al cessate il fuoco, fossero, in realtà, “azioni difensive o in risposta alla provocazioni”.

Infatti, complicare le cose, il fatto che miliziani “islamisti provenienti da tutto il mondo si sono riversati nel paese a partire dalla seconda metà del 1992, dando vita a una jihad contro croati e serbi. Molti di questi avevano già acquisito esperienza nel teatro di guerra afghano”, altri venivano reclutati altrove, inizialmente da turchi e iraniani, con i finanziamenti sauditi, per poi essere gestiti direttamente dall’America, che ne scaricò a migliaia con i suoi Hercules C-130.

“Le stime sul numero dei mujaheddin bosniaci variano notevolmente, ma il loro contributo fondamentale alla guerra è chiaro. Il negoziatore statunitense per i Balcani Richard Holbrooke nel 2001 dichiarò che i bosniaci ‘non sarebbero sopravvissuti’ senza il loro aiuto, e definì il loro ruolo nel conflitto un ‘patto con il diavolo‘ da cui Sarajevo doveva ancora riprendersi”.

Tali miliziani erano usi a creare false flag per incolpare i serbi di atrocità o di aver violato il cessate il fuoco. Così su un cablogramma dell’UNPROFOR: “Le milizie islamiche non disdegnano di sparare contro la loro stessa gente o contro obiettivi delle Nazioni Unite per poi dare la colpa ai serbi in modo da attrarre ulteriore simpatia presso l’opinione pubblica occidentale. Spesso posizionano la loro artiglieria in prossimità di edifici delle Nazioni Unite e aree sensibili come gli ospedali nella speranza che i serbi, rispondendo al fuoco, colpiscano tali siti sotto gli occhi dei media internazionali”.

In un altro cablogramma si ipotizzava che tali milizie avrebbero colpito l’aeroporto di Sarajevo, dove atterravano gli aiuti umanitari, perché i serbi sarebbero stati indicati come “ovvi” responsabili dell’attacco.

Così un altro cablo: “Sappiamo che in passato i musulmani hanno sparato sui loro stessi civili e sull’aeroporto per attirare l’attenzione dei media”. E un successivo: “Le forze islamiche al di fuori di Sarajevo, in passato, hanno piazzato esplosivi ad alto potenziale presso le loro stesse posizioni per poi farli esplodere sotto gli occhi dei media e accusare i serbi di averli bombardati”.

Africa Colpi di Stato AMERICANI

TRE VIDEO IMPORTANTI CHE CERTIFICANO L’ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA USA NEL MONDO.

Si chiede al Gen. Langley quanti africani vengono addestrati in Africa e poi effettuano un colpo di Stato con i militari americani.E’ questo il valore fondamentale per cui li addestrate?1/3

In Guinea e in Burkina Faso il colpo di Stato è stato effettuato da africani addestrati dall’esercito USA per esportare democrazia?Perchè gli Americani dovrebbero pagare le tasse per addestrare gente in Africa che poi fa un colpo di Stato?Quanti governi rovesciati?un valore?

L’ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA USA NEL MONDO.

AFGHANISTAN NARCO DECLASSIFICATI

Documenti declassificati dell’intelligence statunitense descrivono la storia dei talebani con il commercio illecito di stupefacenti

24 GENNAIO 2023tag: 

Afghanistan , 

DNSA , 

FOIA , 

Talebani

di Burkelly Hermann

Il 13 gennaio di quest’anno, Hasibullah Ahmadi, capo del dipartimento antidroga del ministero dell’Interno dell’Afghanistan, ha affermato che il traffico di droga dal paese è diminuito, ma ha ammesso che questo commercio illecito continua in alcune province. Questi commenti sollevano la questione dei legami dei talebani con il mercato dei narcotici e dei precedenti tentativi di frenare la produzione di droga. I documenti declassificati presenti nel post di oggi, tutti rilasciati ai sensi del Freedom of Information Act (FOIA), sono una selezione della nuova collezione Digital National Security Archive, Afghanistan War and the United States, 1998-2017 , pubblicata nel dicembre dello scorso anno. I tre documenti esaminati in questo post descrivono in dettaglio i legami dei talebani con le reti di trafficanti internazionali alla fine degli anni ’90 e i tentativi di regolamentare il mercato nei primi anni 2000 nel tentativo di ingraziarsi la comunità internazionale. Nel loro insieme, i documenti descrivono i legami dei talebani con i piani del traffico di droga e come i divieti sui papaveri, anche quando efficaci, hanno giovato finanziariamente ai talebani e ai consorzi di traffico associati. 

Con l’emergere del primo movimento talebano, dal 1994 al 1996, la produzione di stupefacenti è salita alle stelle in Afghanistan, con documenti declassificati che affermano che il gruppo si è allineato con i trafficanti di droga internazionali. Ci sono state indicazioni da parte di funzionari statunitensi che la produzione di stupefacenti nel paese è aumentata in modo significativo in seguito al controllo dei talebani su vaste aree del paese. In una stima segreta dell’intelligence nazionale (NIE) del maggio 2001 ora declassificata, l’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale ha sottolineato che nel 2000 il paese forniva circa il 72% dell'”oppio illecito” mondiale. Questo documento pesantemente redatto includeva una mappa che indicava le aree di coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan (pagina 26) e un grafico che mostrava l’aumento della coltivazione di oppio tra il 1991 e il 2000. Il NIE ha notato che i produttori in Afghanistan erano passati a fornire e produrre più eroina per diversi anni prima 2001. 

Questa analisi è stata rafforzata da un documento di ricerca della CIA Top Secret del dicembre 1998, ora declassificato, preparato dal Direttore del Central Intelligence (DCI) Crime and Intelligence Center, e recentemente rilasciato ai sensi del FOIA al National Security Archive. Questo rapporto Top Secret pesantemente rimossodescrive in dettaglio l’esplosione del mercato dei narcotici sotto il dominio talebano, rilevando i legami del gruppo con Quetta Alliance, un giro internazionale di traffico di droga, che condivideva legami con Osama bin Laden. Inoltre, questo rapporto afferma che il crescente ruolo dei talebani nel paese ha fatto esplodere il business dei narcotici. Il documento valuta anche il coinvolgimento del gruppo nel traffico illecito di stupefacenti, affermando che esso comprendeva i massimi leader talebani e che questo commercio si è intensificato “negli ultimi anni”, portando a immensi profitti per l’organizzazione fondamentalista. In particolare, il DCI Crime and Intelligence Center afferma che i fornitori di stupefacenti afgani si erano spostati verso i mercati internazionali, oltre a distribuire ai trafficanti di droga in Turchia. Il documento sottolinea che i combattenti talebani hanno fornito “supporto logistico” e “protezione” per il traffico di droga e laboratori all’interno del paese. Più significativamente, il documento sostiene che i talebani hanno forgiato legami con l’Alleanza di Quetta, un importante gruppo di trafficanti regionali e sponsor terroristico di Osama bin Laden.

Questo articolo non era il solo a descrivere l’Alleanza di Quetta. Un rapporto pubblicamente disponibile dell’agosto 1994, compilato dalla Divisione Intelligence della Drug Enforcement Administration (DEA), descrive l’Alleanza di Quetta come un’alleanza tra tre potenti gruppi di trafficanti che operano a Quetta, all’interno della provincia pakistana del Baluchistan. Il rapporto della DEA affermava che questa libera alleanza era basata su legami familiari e descriveva l’operazione come “simile a un grande consorzio di produzione o di servizi”. Ciò si collegava all’affermazione contenuta nel suddetto documento del DCI Crime and Intelligence Center, che sosteneva che una volta che l’Alleanza di Quetta fosse diventata il gruppo di narcotraffico dominante nel sud dell’Afghanistan, avesse fornito sostegno finanziario e reclutamento ai fiorenti talebani.

Alla fine del 1999, i talebani avevano vietato la coltivazione del papavero. Questo sarebbe seguito da un divieto di coltivazione e traffico di oppio nel luglio 2000, quest’ultimo in un editto del leader talebano Mullah Omar. Tuttavia, questi divieti non hanno interferito con il traffico e la vendita di oppio o papavero. Un cablogramma segreto declassificato del luglio 2001 della Defense Intelligence Agency (DIA) affermava che, sebbene il divieto fosse principalmente efficace, aumentava comunque sostanzialmente le entrate dei talebani dal traffico illecito di droga. Il divieto ha seguito le risoluzioni 1267 e 1333 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, rispettivamente nel 1999 e nel 2000, che condannava “il significativo aumento della produzione illecita di oppio” e chiedeva che i talebani si adoperassero per “eliminare virtualmente la coltivazione illecita del papavero da oppio”. Successivamente, il cablogramma della DIA rileva che i talebani probabilmente hanno soppesato il riconoscimento da parte della comunità internazionale rispetto ai propri interessi quando hanno considerato un’estensione del divieto. 

Questo cablogramma DIA ora declassificato affermava inoltre che mentre il divieto dei talebani avrebbe probabilmente ridotto la produzione mondiale di oppio di almeno il 50%, il divieto ha portato al quadruplicamento del prezzo afghano di oppio, morfina base ed eroina, che in precedenza erano record bassi. Il cablogramma afferma esplicitamente che un anno dopo il divieto i talebani beneficiavano ancora sostanzialmente dei proventi della droga, “… principalmente dalle tasse sul continuo traffico di stupefacenti e dalle scorte di stupefacenti di proprietà dei talebani, il cui valore è aumentato notevolmente”. Il cablogramma della DIA rileva inoltre che il divieto probabilmente non avrebbe avuto un impatto sugli Stati Uniti nei prossimi mesi, poiché le sue principali fonti di eroina provenivano dal sud-est asiatico e dall’America Latina. Mentre i talebani non hanno mai dovuto soppesare i propri interessi nell’estendere il divieto dovuto agli Stati Uniti 

Per ulteriori documenti sui talebani, vedere i numerosi manuali dell’Archivio, incluso il post del 23 settembre 2021, ” Documenti appena pubblicati mettono in dubbio le affermazioni che i talebani rinunceranno ad al Qaeda “. 

Gli ettari coltivati a papavero da oppio e il programma di eradicazioni in Afghanistan dal 1998-2014 (World Drug Report Unodc 2015)

L’Ufficio dell’Onu per la droga e il crimine (Unodc) ha stimato per il 2016 una produzione di 4.800 tonnellate di oppio, ammettendo sia «sottostimata sulla base dell’altezza e della densità delle piante osservata dai satelliti», malgrado ciò comunque quasi il doppio (+43%) delle 3.300 tonnellate dell’anno precedente. È aumentato inoltre il rendimento medio delle colture: dai 26,3 chilogrammi di oppio per ettaro del 2013, ai 28,7 chilogrammi del 2014. Di conseguenza, sempre per il 2016, l’Unodc stima una crescita del 30%, grazie alle «favorevoli condizioni climatiche» [14]. Le già inefficaci eradicazioni sono del resto calate nel 2016 del 91%, con appena 355 ettari distrutti. Ufficialmente per le difficili condizioni di sicurezza: 8 morti e 7 feriti nella campagna di eradicazione 2016, con 5 vittime e 18 persone colpite nell’annata precedente [15]. La verità sembra però essere un’altra, ben più scomoda. La chiariva anche un comunicato radio del comando della missione Nato, rivolto alla popolazione di quella provincia: «Stimato popolo dell’Helmand, i soldati dell’Isaf non distruggono i campi di papavero perché sanno che molti in Afghanistan non hanno alternative alla coltivazione del papavero. L’Isaf non vuole sottrarre alla popolazione i mezzi necessari per sostentarsi» [16]. Nel 2010, l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal dirà la stessa identica cosa ai contadini del distretto di Majrah, formalmente parte di quello di Nad Ali nella provincia sud-occidentale di Helmand, appena riconquistato dai Marines americani dopo una grande offensiva militare: «Non distruggeremo le piantagioni di papavero, perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia» [17]. Lo stesso presidente Karzai nel 2004 rigettò la proposta internazionale di fermare la produzione di oppio attraverso lo spargimento aereo di erbicidi chimici, spiegando che questa coltivazione costituiva l’unica fonte di sostentamento per larga parte degli afghani.

Per Barnett Rubin, consulente del governo Usa per l’Afghanistan, «quando il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld incontra in Afghanistan personaggi noti come narcotrafficanti, il messaggio che lancia è chiaro: aiutateci a combattere i talebani e nessuno interferirà con i vostri business» [8]. La connivenza degli Stati Uniti e della Nato con i signori della droga afghani prosegue anche dopo l’arrivo di Barak Obama alla Casa Bianca, ma con una rettifica. La nuova amministrazione decide di abbandonare l’imbarazzante linea, seguita fino a quel momento, di assoluto disinteresse al problema oppio, in favore di un intervento “selettivo” volto a colpire solamente i signori della droga legati ai talebani, ma – badate bene – solo quelli, perché con i narcos “amici” si continua invece a chiudere un occhio. Nell’agosto del 2009 un quotidiano statunitense annuncia che il Pentagono ha stilato una lista nera comprendente una cinquantina di narcotrafficanti afghani da catturare o da uccidere: «Non tutti i trafficanti, ma solo quelli che sostengono l’insurrezione e che con essa hanno legami certi» [9]. In Afghanistan la Cia e la Dea sono nuovamente in conflitto di interessi, peraltro con l’antidroga statunitense tra il 2001 e il 2003 con soli 2 agenti sul posto, saliti a 13 dopo il 2004.

1) Documenti National Security Archive

Clinton voleva “creare la partnership USA-Russia più stretta possibile”

Strobe Talbott ha visto la trasformazione russa come “il più grande miracolo politico della nostra era”

Clinton ha promesso di “fare tutto il possibile per aiutare le riforme democratiche della Russia ad avere successo”
 

Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il presidente Bill Clinton era determinato a non perdere un’opportunità storica per aiutare la Russia a trasformarsi in uno stato capitalista democratico, secondo una serie di documenti declassificati Documenti del Dipartimento di Stato pubblicati oggi dal National Security Archive.

La pubblicazione odierna include una trascrizione della prima conversazione telefonica tra Clinton e Eltsin nel 1993, un perspicace promemoria di transizione del Segretario di Stato uscente, Lawrence Eagleburger, e un briefing di alto livello del principale assistente di Clinton in Russia, Strobe Talbott. I documenti mostrano Clinton, i suoi consiglieri e i loro predecessori nell’amministrazione Bush alle prese con una serie di sfide politiche chiave, tra cui la presenza di armi nucleari in tre ex repubbliche sovietiche, il rapido crollo dell’economia russa e le crescenti tensioni tra il presidente Boris Eltsin e il Parlamento russo nel 1992. Anche se Clinton rifletteva su queste importanti scelte politiche, lui ei suoi consiglieri provarono una profonda empatia personale per il presidente russo in difficoltà e per il progetto di riforma che aveva intrapreso.

Declassificati in risposta alle richieste del Freedom of Information Act (FOIA) da parte del National Security Archive, questi documenti sono i primi punti salienti di una prossima raccolta di riferimenti sulle relazioni USA-Russia che coprono tutti gli anni ’90. Quel set, Relazioni USA-Russia dalla fine dell’Unione Sovietica all’ascesa di Vladimir Putin , sarà pubblicato da ProQuest come parte della pluripremiata serie Digital National Security Archive .

Ancor prima che William Jefferson Clinton diventasse il 42esimo presidente degli Stati Uniti, aveva sviluppato un profondo interesse per la Russia e la sua difficile trasformazione. Durante la sua campagna presidenziale, Clinton ha chiesto maggiori aiuti economici statunitensi alla Russia e ha criticato l’approccio cauto dell’amministrazione Bush. Nel suo discorso alla Foreign Policy Association a New York il 1° aprile 1992, il governatore Clinton ha parlato del sostegno ai cambiamenti rivoluzionari in Russia, che (insieme a una nota segreta dell’ex presidente Richard Nixon) [1] ha spinto l’amministrazione Bush ad annunciare la sua proprio pacchetto di aiuti. [2] Tuttavia, gran parte dell’assistenza promessa non si era mai materializzata. [3]

Il primo incontro di Clinton con Eltsin ebbe luogo durante la visita del presidente russo a Washington nel giugno 1992, due settimane dopo che Clinton divenne il presunto candidato democratico. A quel tempo, Eltsin era concentrato su Bush, convinto che avrebbe vinto la rielezione. Clinton era “un grande ammiratore di [Eltsin] da quando si trovava su un carro armato per opporsi a un tentativo di colpo di stato” nell’agosto 1991 e lo trovò “educato e amichevole ma leggermente condiscendente” nel loro incontro del 1992. [4] Clinton, tuttavia, ha subito preso in simpatia il corpulento russo con radici siberiane che ora era impegnato con passione a trasformare la Russia in una democrazia e in un’economia di mercato. Clinton ha deciso di fare della trasformazione della Russia la sua massima priorità di politica estera.

Affrontare il mondo post-Guerra Fredda è stata una sfida enorme per gli Stati Uniti quando Clinton è entrato in carica. Nel suo memorandum di transizione del 5 gennaio 1993 al Segretario di Stato designato da Clinton, Warren Christopher, il Segretario di Stato uscente Lawrence Eagleburger ha affermato che il destino della riforma russa sarebbe stato il fattore chiave per garantire la pace e la sicurezza in Europa (Documento 1) . Eagleburger era un diplomatico esperto e di alto rango ed ex aiutante di politica estera di Henry Kissinger che divenne Segretario di Stato quando Bush chiese a James Baker di unirsi alla sua campagna nel 1992. politica (“È l’economia, stupido!”). È interessante notare che il promemoria non contiene alcun accenno al futuro della NATO se non nel contesto del mantenimento della pace nell’ex Jugoslavia.

Mentre Eagleburger era principalmente preoccupato per le armi di distruzione di massa e la possibile proliferazione, Clinton voleva che le relazioni degli Stati Uniti con la Russia riguardassero molto più del controllo degli armamenti. Talbott ha ricordato come Clinton fosse totalmente immerso in ciò che stava accadendo in Russia durante la sua vacanza di lavoro all’inizio di gennaio 1993 a Hilton Head, nella Carolina del Sud. (Il presidente Bush era allora a Mosca per firmare il Trattato START II.) Secondo Talbott, “Clinton pensava molto alla Russia, ma non molto al controllo degli armamenti”. Il presidente eletto ha visto affrontare la crisi economica della Russia come la principale sfida della giornata. L’economia russa era in gravi difficoltà, poiché l’iperinflazione e la conseguente perdita di risparmi personali lasciavano un vero pericolo di fame durante l’inverno. [5]

Clinton ha fatto la sua prima telefonata a Eltsin due giorni dopo l’inaugurazione per esprimere il suo impegno a sostenere le riforme russe, usando più volte la parola “partnership” durante la conversazione. Eltsin era ubriaco quando ha risposto alla chiamata, secondo Talbott, che ha detto che le sue “parole erano confuse” e che “sembrava che ascoltasse a malapena ciò che Clinton aveva da dire”. L’ubriachezza del presidente russo “ha più divertito che scioccato” Clinton, cresciuto con un patrigno alcolizzato. Dopo la conversazione, ha descritto Eltsin a Talbott come un “candidato all’amore duro, se mai ne avessi sentito uno”. [6]  Ma finché Eltsin rimase impegnato nelle riforme democratiche, il suo bere non avrebbe fatto deragliare il rapporto. L’alcolismo di Eltsin sarebbe rimasto un tema durante la maggior parte dei 18 vertici tra i due leader.

La scelta di Talbott come “mano della Russia” di Clinton (Ambasciatore Generale e Consigliere Speciale del Segretario di Stato sui Nuovi Stati Indipendenti dell’ex Unione Sovietica) è stata simbolica e ha anche segnalato l’impegno personale del presidente nei confronti di Stati Uniti-Russia relazione. Talbott era amico personale e compagno di stanza di Clinton dai suoi giorni come Rhodes Scholar. Aveva una profonda esperienza nelle relazioni USA-URSS, parlava correntemente il russo ed era determinato a non perdere l’occasione di aiutare la Russia nel suo cammino verso la democrazia e il libero mercato. Nel suo libro, Talbott sottolinea che, in realtà, fu lo stesso Bill Clinton a “diventare il principale braccio destro del governo degli Stati Uniti in Russia, e così rimase per tutta la durata della sua presidenza”, a causa del suo profondo coinvolgimento nella politica nei confronti della Russia. [7]

Talbott vedeva la trasformazione russa come “il più grande miracolo politico della nostra era” e riteneva che, in caso di successo, avrebbe avuto un’importanza storica simile alla fondazione degli Stati Uniti e del suo sistema democratico (Documento 3). L’appassionato appello di Talbott a sostenere i riformatori russi suggerisce che la politica russa dell’amministrazione Clinton fosse genuina, sincera e ben intenzionata.

A partire da Gorbaciov, e ancora di più da Eltsin, i leader russi desideravano disperatamente l’istituzione di un nuovo sistema internazionale in cui la Russia sarebbe stata un vero partner dell’Occidente. Nel 1993, tutti gli elementi necessari sembravano essere presenti: l’impegno personale di Bill Clinton, la volontà della Russia di seguire l’esempio degli Stati Uniti su molte questioni internazionali e una buona esperienza di cooperazione produttiva nell’ambito del programma Nunn- Lugar . La politica russa di Clinton produrrà alcuni straordinari risultati (ironicamente la maggior parte dei quali nel controllo degli armamenti) e molte delusioni negli anni ’90. Ma in questo momento di grandi speranze nel febbraio 1993, il team russo di Clinton guardava al futuro con ottimismo.

The Museum of Modern Art MOMA

Il Museum of Modern Art di New York o MoMA è dedicato all’arte moderna e contemporanea. Questo museo è uno dei più grandi al mondo e ospita opere di Pablo Picasso, Jackson Pollock e Andy Warhol, solo per citarne alcuni. Le esposizioni cambiano di continuo, quindi ogni volta che si visita il MoMA è un’esperienza diversa. I biglietti qui sotto includono la possibilità di accedere saltando la fila, il che è piuttosto conveniente essendo questo uno dei musei più visitati di New York.

Video Moma New York Ottobre Novembre 2022

Sequenza di video per montaggio che fanno parte del video principale

Moma 1 Video parti

Moma 2 Video Parti

Moma 3 Video Parti

Moma 4 Video Parti

MOMA 5 Parti

Pollok

FOTOGRAFISKA MUSEUM Video

Video Guggenheim Museum
Libia Thanks Giving

Brasil Belem

NOWHERE LAND

Art Fotografiska New York

Fotografiska

David La Chapelle

“David LaChapelle, uno dei più importanti e dissacranti fotografi contemporanei. il suo concept ruta attorno al ritorno alla figura umana, a temi come il paradiso e le rappresentazioni della gioia, della natura e dell’anima, si uniscono al cosmo iconico, mitico, disseminato di stereotipi irriverenti e irridenti visioni post diluvio di LaChapelle, per continare a deliziare gli occhi e solleticare l’immaginario

Video Elaborato da me durante la visita dell’Ottobre novembre 2022

Foto Di repertorio

Insieme a Visitare altri Musei Arte a New York

Moma Museum

Guggenheim MUSEUM

  • TUTTO PALESTINA

    TUTTO PALESTINA

    UNA RICOSTRUZIONE COMPLETA DI QUANTO è SUCCESSO IN PALESTINA DAGLI ANTIPODI


  • Proposta Turismo Governo

    Proposta Turismo Governo

    Proposta Al Governo Renzi:Strategie Sviluppo Turistico Italia Relatore e progettista. Salvatore Bulgarella Analisi situazionale Nonostante l’immenso patrimonio artistico culturale, la varietà delle risorse paesaggistiche e gastronomiche, il turismo nel nostro paese stenta  a porsi come motore prioritario dello sviluppo economico e malgrado i significativi incrementi degli ultimi anni, l’Italia si posiziona nel 2016 solo all’ottavo…


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    MISIÓN SECTOR PESCA PERU

    PRESENTAZIONE PROGETTO STRATEGICO DELLA FILIERA PESCA PERUVIANA, Analisi Mercato Europeo, Commessa da Eurochambres, Governo Peruviano, Al Invest ANALISI MERCATO SEAFOOD EUROPEO SVILUPPATO PER GOVERNO PERUVIANO MISIÓN DE ASISTENCIA TÉCNICA DEL SECTOR PESCA PERU Informe Dott. Salvatore Bulgarella                                                        Experto en estrategia empresarial  Contexto Situacional El sector pesca peruano viene atraversando un favorable momento de crecimiento, subrayado, con un…


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    IL PENSIERO

    L’infinito è immenso e non ha dimensione Ma il pensiero può percorrerlo in un attimo E dargli la forma che vuole Salvatore Bulgarella


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    L’armonia; e la regolarità rappresentano delle categorie semplici di maniera L’rregolarità invece sottolinea l’inquetudine latente, una verità diversa ma non per questo arbitraria. Salvatore Bulgarella – Visita il Mio Blog


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    Il Mozambico è un Paese dell’Africa Meridionale, la cui estesa costa sull’Oceano Indiano è caratterizzata da popolari spiagge, come quella di Tofo, e da parchi marini in mare aperto. Dell’arcipelago Quirimbas, un gruppo di isole coralline che si estendono per 250 km, fa parte Ibo: quest’isola, ricoperta di mangrovie, ospita rovine di epoca coloniale sopravvissute…


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    Mission Libya The Truth

    Il report riguarda, la ricostruzione progressiva delle “ragioni” che hanno portato l’Occidente tramite la Nato, Compresa l’Italia all’aggressione dello stato Libico. Provocando 50 mila morti, ed un paese distrutto. Libia, quando c’era Gheddafi prima del 2008: La Vita familiare di Gheddafi. Qui di seguito nelle foto con la moglie Safia ed i figli: Saif al-Arab,…


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    CURRICULUM  CV French

    Curriculum Vitae Francais  . PDF


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    INTERFERENZE CLIMATICHE

    FIORI PER TUTTI FIORI PER SEMPRE; PROFUMI SPECIALI Lasciatevi INEBRIARE. i profumi , le essenze fanno parte del nostro quotidiano. sono l’essenza della vita i Wakkari li regalano a tutto il mondo in abbondanza Questo articolo esamina il processo di rovesciamento di governi sovrani attraverso colpi di stato militari, atti di guerra, sostegno a organizzazioni…


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    U circulu

    Ieri sera mi hanno invitato a circolo anziani di Pietre tagliate. Come Ospite d’onore. Eravamo 3 in tutto. Ficimu na gran mangiata di cipuddi arrustuti e pani duru E dopo ¾ pirita saporose nassittamu a parlari cu rosolio mmanu. <Figghiu meu> mi rissi taliannumi strittu strittu nall’occhi u zu Angiulino “u carvunaru”, Puru si tu…


  • RADICIDEL MALE 2

    RADICIDEL MALE 2

    La guerra non dichiarata dell’America al Pakistan Il Paradossistan di Clinton: troppo bello per essere vero È stata una performance relativamente impeccabile. Con Washington bloccata nella sua revisione dell’Afghanistan e le città del Pakistan sotto bombardamento, il Segretario di Stato Hillary Clinton è atterrato in un Pakistan ostile nell’ottobre 2009 per un’autoproclamata  missione di propaganda . Accolta…


New York Musei 2022 Ottobre Novembre

Attraverso i LInk di cui sotto Visitiamo I Musei: Di Moma, GuggenheimMuseum, Fotografiska, Metropolitan Museum, New York con i Video girati da me Nell’Ottobre Novembre 2022

Guggenheim Museum in NYC

The Museum of Modern Art MOMA

Fotografiska Museum New York

Metropolitan Museum of Art New York

Altre Pagine del Blog

Impero Americano

1. In geopolitica, non esiste niente di più americano delle basi militari degli Stati Uniti all’estero. Compongono una rete immensa , ai quattro angoli del pianeta,

le basi sono l’espressione più manifesta della natura imperiale del primato degli Stati Uniti.

Il modo di acquisire le installazioni, il terreno su cui erigerle o il diritto di accedervi si pone inoltre in continuità con il breve ma denso momento coloniale della storia americana.

Normalmente, le basi più grandi appartengono al dipartimento della Difesa (Corea del Sud, Giappone, Germania, Italia), oppure sorgono nei territori d’oltremare degli Stati Uniti (Guam, Porto Rico). In altri casi, la sovranità resta al paese ospite con cui Washington ha negoziato una concessione per un lasso di tempo determinato oppure il diritto ad accedervi all’occorrenza (Thailandia, Australia, Filippine, Islanda). In altri ancora, le Forze armate non acquartierano stabilmente un’unità militare all’estero, ma ne fanno ruotare diverse per non dare l’impressione di uno schieramento fisso – si tratta insomma di una presenza stanziale mobile (Polonia, paesi baltici). Tutte queste distinzioni hanno senso dal punto di vista geopolitico?

Dalla seconda Guerra mondiale, gli americani non hanno più lasciato la massa bicontinentale. Impegnati come sono da 80 anni a questa parte ad assicurarsi a soffocare qualsiasi tentativo di Indipendenza e a controllare  i revisionismi cinese, russo e iraniano.  il mondo delle basi americane si estende su  89 paesi o territori non indipendenti, poco meno della metà degli Stati del pianeta. Se si uniscono quelli su cui sorgono le installazioni più rilevanti, si ottiene una collana di perle che cinge l’Eurasia. Questa linea non esaurisce affatto la presenza militare americana: non tocca per esempio l’aeroporto di U-Tapao in Thailandia dove i velivoli statunitensi fanno scalo centinaia di volte l’anno; neanche Camp Bondsteel in Kosovo, che può acquartierare fino a 7 mila soldati (ora ce ne sono circa 600); e nemmeno la Polonia, caso da manuale di presenza mobile fissa, con i suoi 18 siti cui gli americani hanno accesso. La collana di perle attraversa snodi insostituibili, strategici, dove l’impronta statunitense è più salda. Plastica dimostrazione del contenimento dell’Eurasia.

Procedendo da est verso ovest, si parte da Guam, essenziale rampa di lancio per proiettarsi velocemente in Estremo Oriente e al contempo stare (non si sa ancora per quanto) al riparo dal fuoco cinese. Si sbarca poi in Giappone, primo pae­se per militari statunitensi, circa 55 mila, con le sue megabasi a Okinawa e la sede della VII Flotta a Yokosuka, le principali di oltre 121 siti. L’unico approdo continentale in Asia orientale, la Corea del Sud, ospita invece 28 mila soldati concentrati a Camp Humphreys, la più grande base statunitense all’estero. 

La scelta di Singapore è motivata da tutto fuorché dai numeri: benché priva di un grosso contingente, dalla città Stato si controlla lo Stretto di Malacca, uno dei più importanti colli di bottiglia marittimi, essenziale per arginare la Cina; qui ha sede un comando logistico della VII Flotta dopo la chiusura di Subic nelle Filippine, anche in virtù della base navale di Changi, una delle poche al mondo in grado di gestire le oltre 100 mila tonnellate di una portaerei a stelle e strisce. Si procede quindi verso la già citata Diego Garcia, per arrivare a Camp Lemonnier a Gibuti, dove si coordinano le operazioni sia nel Corno d’Africa sia sulla Penisola Araba – e si subisce la marcatura dei cinesi a Bāb al-Mandab.


Nel Golfo, invece, sono tre i principali appoggi statunitensi: al-‘Udayd in Qatar, quartier generale locale del Comando per il Medio Oriente (Centcom) e centro di controllo aereo di tutta la regione; Manama in Bahrein, sede della V Flotta deputata a vegliare sulle rotte marittime; e il Kuwait tutto, affollata guarnigione dell’Esercito con 16 mila soldati e 2.200 mezzi corazzati divisi fra Camp Buehring, Camp Arifjan e Camp Patriot. Si prosegue poi in Turchia, con la stazione radar dello scudo antimissile della Nato a Kürecik e la base aerea di İncirlik, dove sono collocate circa 50 testate nucleari. Si sbarca infine in Europa(carta

1). L’Italia mette a disposizione basi essenziali per proiettarsi in Africa e Medio Oriente, da Aviano a Sigonella, dalla quale partono missioni di bombardamento verso la Libia, senza dimenticare il sistema di comunicazione satellitare Muos di Niscemi. La Germania è il perno della presenza militare americana nel Vecchio Continente, seconda al mondo per numero di militari (almeno 36 mila) e prima per installazioni (almeno 194); qui hanno sede il Comando per l’Europa, la più grande base dell’Esercito nel Vecchio Mondo (Wiesbaden, controlla almeno 20 mila soldati) e il gigantesco scalo di Ramstein. Toccato il Regno Unito, essenziale per gli snodi aerei, si chiude con la Groenlandia, dove sorge la base più a nord del globo, Thule, che irradia le comunicazioni nel pianeta e scruta che dall’Artico non provengano missili.

Comune denominatore dei paesi lungo la collana di perle: la ridotta sovranità di fronte all’imperio americano. Vuoi per uno squilibrio incalcolabile nei rapporti di forza, evidente nel caso dei territori non indipendenti (Guam, Diego Garcia, Groenlandia), degli staterelli tali solo sulla carta (Gibuti e Singapore) e delle petromonarchie arabe passate da un protettore (i britannici) all’altro (gli americani). Oppure per condizioni storiche, dai reietti della seconda guerra mondiale (Italia, Germania e Giappone) agli imperi decaduti (Turchia e Regno Unito).

Note e Credits

1. Cfr. A. Krepinevich, R. Work, «A New Defense Posture for the Second Transoceanic Era», Center for Strategic and Budgetary Assessment, 2007, cap. VI.

2. Cit. in D. Immerwahr, How to Hide an Empire: A Short History of the Greater United States, 2019, Vintage Publishing, p. 13.

3. D. Vine, Base Nation: How U.S. Military Bases Abroad Harm America and The World, New York 2015, Metropolitan Books.

4. DOD Dictionary of Military and Associated Terms, novembre 2019, p. 23.

5. A.T. Mahan, The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783, Boston 1890, Little, Brown and Company, p. 82.

6. Cfr. D. Vine, Island of Shame: The Secret History of the U.S. Military Base on Diego Garcia, Princeton 2009, Princeton University Press.

7. H.S. Truman, «Radio Report to the American People on the Potsdam Conference», 9/8/1945, disponibile al sito bit.ly/2PJukyC.

8. Discorso tenuto al Reagan National Defense Forum il 7/12/2019, disponibile al sito bit.ly/2sm1Tin

9.  «U.S. National Survey of Defense Attitudes on Behalf of The Ronald Reagan Foundation», Beacon Research, Shaw & Company Research, condotto il 24-30/10/2019, p. 7, bit.ly/2RVQqkb

10. F. Petroni, «I proconsoli dell’America», Limes, «Stati profondi, gli abissi del potere», n. 8/2018, pp. 169-179.

11. D. Gillison, N. Turse, M. Syed, «The Network: Leaked Data Reveals How the U.S. Trains Vast Numbers of Foreign Soldiers and Police with Little Oversight», The Intercept, 13/7/2016.

12. LIMES ” Impero Americano